La gioia di generare vita
Fratelli, sorelle,
il vangelo odierno [Mc 9,30-37] riporta una parola di Gesù fondamentale per la vita comunitaria. E che riguarda certamente chi nella comunità esercita il servizio dell’autorità, ma in verità concerne tutti. Dice Gesù: “Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servo di tutti” (Mc 9,35). La nostra Regola contiene echi di queste espressioni di Gesù proprio nei suoi paragrafi finali. Nel paragrafo 46 si ricorda a ogni monaco e monaca: “Il tuo è l’ultimo posto”. E nel paragrafo 47: “Sii servo di tutti”. Se l’immagine evangelica di chi presiede facendosi servo di tutti è quella di Gesù che lava i piedi ai suoi discepoli, questo atto è in verità proprio del cristiano e del monaco. Di ognuno.
Ma che cosa comporta e significa essere servo di tutti? E occupare l’ultimo posto? Una prima condizione, direi perfino una precondizione perché queste parole possano divenire realtà, è l’attitudine interiore di non voler aver potere sugli altri. Rifiutarsi coscientemente di esercitare un potere anche quando sono gli altri stessi a cercarlo e a chiedercelo. Rifiutarsi di cedere a chi si affida a noi delegandoci le scelte e le decisioni che spettano a lui. Scegliere di essere all’ultimo posto e di essere servo di tutti implica, di converso, l’esercitare l’unico vero e legittimo potere, quello su di sé. Dunque imparare a limitare se stesso, a porre argini al proprio dire con l’arte della discrezione, disporsi a imparare piuttosto che atteggiarsi a maestro (come ricorda la Regola parlando del rapporto con gli ospiti: “Evita di turbare gli ospiti, di metterti nei loro confronti come maestro”: RBo 39), rendere l’ascolto uno stile di vita quotidiano, porre argini anche al proprio fare e alla propria forza con l’arte della mitezza, fuggire la doppiezza e la menzogna con cui si esercita potere sugli altri. Non significa fingere di essere meno di ciò che si è. Ma significa comprendere che la cosa più bella in una vita umana, e dunque anche monastica, è la generatività e dunque fare spazio ad altri perché possano crescere e svilupparsi
Un genitore si pone a totale servizio del proprio bambino, gli fa spazio, gli parla, lo ascolta, ne interpreta ogni moto fisico e dell’animo e vi va incontro. L’aver avuto in mezzo a noi per un paio di giorni delle famiglie con bambini dovrebbe averci insegnato anche questo, dovrebbe averci evangelizzato. Un genitore rinuncia a se stesso ordinando i ritmi delle proprie giornate in base ai bisogni del proprio bambino, accorda potere all’inerme bambino che diviene di fatto padrone dei suoi orari, dei suoi ritmi di vita. Bambino che gli impedisce spesso di ritagliarsi tempo per sé, che gli impone di cambiare programma all’ultimo minuto per la sua indisposizione. Il posto del genitore nei confronti del bambino è quello del servo, è l’ultimo posto.
Non a caso Gesù, dopo aver invitato i discepoli a essere servi di tutti e ad occupare l’ultimo posto, parla dell’accoglienza dei bambini (Mc 9,36-37). Accoglierci gli uni gli altri come un genitore accoglie un bambino è occupare l’ultimo posto e farsi servo di tutti. Ma la prospettiva non è di lamento per la fatica del servizio o per il peso che gli altri sono. La prospettiva è di gioia per il crescere di un’altra vita. Di amore e felicità per la vita che si trasmette. Se una vita monastica non vuole essere una vita ritualizzata, o obbediente solo a stereotipi, o una fuga dalla vita stessa, o un’obbedienza a consuetudini rassicuranti ma non vitali, non può che divenire generativa. Essere generativi implica l’evitare l’attitudine del controllo, perfino dello spiare l’altro, perché servire l’altro è porsi a servizio della sua libertà e soggettività. È dargli e fargli fiducia. Altrimenti si rivela che noi, mentre diciamo di servire gli altri, in verità ce ne serviamo. Ovvero, mostriamo di aver noi bisogno di loro da servire. Ma se obbediamo a questo bisogno non generiamo nulla, non trasmettiamo vita e restiamo noi stessi nelle spire della non libertà e del non amore. E soprattutto neghiamo il desiderio.
Un criterio che riveli la sanità del servire? Poiché appunto vi è un servizio che nasce da motivazioni non limpide, ma è la nostra maniera di guadagnarci ogni giorno il permesso di vivere, oppure la perpetuazione di abitudini antiche, o l’espressione di una iper-responsabilità tutto sommato autoreferenziale. Dunque, quale criterio per un servizio sano e non malato? La gioia. La gioia che ci abita anche in mezzo a tribolazioni e difficoltà. La gioia che vivifica il servire perché esprime amore. Esprime desiderio di vita per l’altro e gioia per la propria stessa vita. E sa godere e gioire della vita dell’altro pur in situazioni dolorose. Allora anche l’ultimo posto e il servire tutti diventano realtà e perdono l’aspetto un po’ tetro di bisogno, di volontarismo e di dovere per lasciare spazio alla gioia per l’espandersi della vita. In noi e negli altri.
Perciò, fratelli, sorelle, siamo sobri e vigilanti perché il nostro Avversario, il Divisore, si aggira cercando una preda da divorare. Resistiamogli saldi nella fede, gioiosi nel servire liberamente e con amore fratelli e sorelle. E tu, Signore, abbi pietà di noi.
fratel Luciano