Non dimenticare
Fratelli, sorelle,
la memoria è dimensione fondamentale della vita di fede, ma ancor prima della vita personale e collettiva. La memoria ci consente di costruire una storia: la nostra storia personale, la nostra storia comunitaria. Nella nostra Regola spesso questa dimensione è presente, anzitutto come ammonizione negativa a “non dimenticare”. Almeno 10 volte ricorre questa espressione. A dire che ci sono dimensioni della nostra vita che, con il passare del tempo, possiamo, anche inavvertitamente, arrivare a dimenticare, a tralasciare, a non includere più nel nostro vissuto, a non ritenere praticamente più costitutive dalla vita monastica. Se le dimentichiamo, infatti, significa che esse non esistono più per noi e noi viviamo e ci comportiamo senza tenerne conto, come se non fossero essenziali. Significa che con il passare del tempo ci facciamo una regola nostra personale a nostro piacimento che tralascia elementi comuni, richiesti a tutti, e ci forgiamo una vita monastica a nostra misura. Noi spesso dimentichiamo, ci ricorda la nostra Regola, che la vocazione ci impegna fino alla fine (RBo 8), che il celibato non può essere vissuto per dovere o per inerzia e che la decisione al celibato va vissuta nel profondo del cuore (RBo 18), che il peccato e il male compiuti da uno solo hanno conseguenze negative sull’intero corpo comunitario (RBo 20), che l’obbedienza è dimensione inerente alla persona stessa di Cristo e che il Christus oboediens è modello dell’obbedienza monastica (RBo 26), che il consiglio della comunità può chiedere obbedienza a chi ha comportamenti in contrasto con la vita della comunità (RBo 47), e potremmo continuare. Quel “non dimenticare” rivela che ci sono situazioni in cui si presenta facilmente la tentazione della dimenticanza e che, quando questo avviene, allora si vive nella comunità ma staccandosi dalla comunità stessa e vivendo come se certe dimensioni basilari della vita monastica non ci riguardassero e non ci impegnassero più.
La Regola chiede poi di ricordare positivamente la parola del vangelo, la promessa di Cristo, la propria personale vocazione. Senza questa memoria, che si mantiene viva grazie alla preghiera e alla lectio divina quotidiana, diverrà sempre più sfocata l’esigenza evangelica della sequela di Cristo, verrà meno il senso dell’appartenenza alla comunità, si raffredderà l’amore fraterno.
La memoria ci consente anche di costruire una storia comune. Ma la costruzione di una storia condivisa richiede tempo e fatica. Richiede pazienza e attesa dei tempi di ciascuno. Quando i decenni si accumulano e le differenze di età e le differenze generazionali si accrescono, quando l’esperienza vissuta in comunità è radicalmente diversa tra gli uni e gli altri, quando la memoria degli uni è profondamente distante da quella degli altri, quando alcuni membri della comunità hanno vissuto poco e niente con altri, quando le condizioni stesse sociali e culturali ed ecclesiali conosciute dai più anziani al tempo del loro arrivo in comunità sono abissalmente differenti da quelle conosciute dalle nuove generazioni, ecco che la costruzione di una storia condivisa richiede un lavoro di incontro preliminare senza il quale non si potrà far avanzare la vita comune ma si resterà su posizioni polarizzate e che rifiutano di comprendersi. O sono impossibilitate a comprendersi. Avviene per la memoria come per l’identità: concepirla e viverla in modo rigido porta all’impossibilità dell’incontro, porta all’oltranzismo della nostalgia. L’eccesso di memoria rende prigionieri del passato e schiavi della nostalgia. La memoria invece, da fattore meramente psicologico deve diventare fattore relazionale e questo è possibile solo mediante il racconto e l’ascolto. Possiamo dire che la memoria è redenta, è salvata dall’incontro: la mia memoria con la tua. Questo richiede il coraggio di dirsi davanti ad altri, senza rifuggire l’incontro in modo adolescenziale mostrando sufficienza e superiorità, tipico atteggiamento di chi ritiene di possedere
la verità e non intende minimamente mettersi in discussione, mentre in verità ha solo paura di vedere il proprio cuore. Redimere la memoria, invece, richiede l’umiltà di riconoscere che la nostra esperienza personale è arricchita e non depauperata dall’ascolto dell’esperienza altrui. Richiede la sapienza di riconoscere che l’incontro con l’altro non è una minaccia ma l’apertura possibile a una rivelazione.
Perciò, fratelli e sorelle, siamo sobri e vigilanti perché il nostro Avversario, il Divisore, come leone ruggente si aggira cercando una preda da divorare. Resistiamogli saldi nella fede e coraggiosi e umili nel lavoro di memoria condivisa che solo può costruire una comunità. E tu, Signore, abbi tanta pietà di noi.
fratel Luciano