Formati al Vangelo
Fratelli, sorelle,
una Regola monastica, e dunque anche la nostra Regola è formativa:
“La presente regola spirituale è un aiuto per te, uno strumento per vivere l’Evangelo e soprattutto un mezzo di comunione fraterna. È su questa regola che tu misurerai la tua appartenenza alla comunità” (RBo 5).
La Regola è dunque uno strumento privilegiato per aiutare il singolo e la comunità nel suo insieme ad assumere e vivere la forma cristiana, la forma che deriva dal vangelo. La Regola propone come fine il perseguire la conformità al vangelo, la conformità alla vita di Gesù, la conformazione al Cristo povero, ma queste rischiano di essere parole molto spirituali, ma senza ancoraggio nella realtà se non si individua e mette in pratica il lavoro che suppongono e senza il quale restano appunto belle parole e niente più. Per esempio, quando al paragrafo 28 la Regola chiede a ciascuno “di chiedersi sempre prima di parlare in capitolo se quel che uno dice sia conforme al proprio piano o al piano di Dio”, questo suppone un lavoro interiore di discernimento. E discernere è una fatica che suppone movimenti che non sono affatto scontati e che vanno appresi con allenamento e costanza, ovvero con ascesi: aprirsi alla realtà attraverso i sensi e farsene toccare nel profondo, pensare, fare attenzione, fare memoria, tener presenti gli altri con cui si vive e con cui si interagisce, cercare di comprendere le conseguenze su di loro di ciò che stiamo per dire o per fare, e poi giudicare, e infine agire o parlare. Si tratta del cosiddetto lavoro spirituale, la fatica richiesta dal cammino di fede di chi vuole lasciarsi guidare dallo Spirito di Dio e non dal proprio spirito, dalle proprie inclinazioni, dai propri progetti o addirittura dai propri istinti.
Quando si dice, al paragrafo 37 che la preghiera, grazie anche al silenzio, trasforma l’essere del monaco, si suggerisce che a pregare, a porsi dunque nell’atteggiamento di ascolto della voce di Dio per arrivare a obbedirla e tradurla in vita, sia tutta la persona, corpo e interiorità, sensibilità e mente, ragione ed emozione. E implica che si entri sempre più a fondo nel lavoro faticoso dell’ascolto, senza il quale la preghiera diviene movimento autoreferenziale e di autogiustificazione. Diventare persone capaci di ascolto è segno di quella trasformazione dell’essere della persona che, secondo la nostra Regola, è un frutto della preghiera.
Quando la Regola, al paragrafo 19, afferma che la castità “non significa rottura di affetti ma trasformazione delle tue passioni, dei tuoi attaccamenti, e integrazione di essi nell’unico amore di Cristo attraverso l’amore per tutti gli uomini”, indica un lavoro interiore in cui uno è chiamato a riconoscere e nominare i propri attaccamenti, le proprie passioni, le proprie pulsioni, per poterli quantomeno addomesticare e non farsene dominare. Richiede il lavoro di riconoscimento delle proprie debolezze e feribilità sul piano relazionale e affettivo per poter giungere a vivere relazioni rispettose di se stessi e degli altri. E anche questo è trasformazione dell’essere della persona.
Quando al paragrafo 12 la Regola dice che ognuno di noi, insieme ai fratelli e alle sorelle, “forma una cellula del corpo di Cristo” non constata una verità che va da sé, una situazione di fatto, ma dice una condizione che necessita di un lavoro quotidiano di conversione interiore e di uscita dal proprio mondo autocentrato per sentire l’altro, per tenerne conto, perché l’altro, il fratello, la sorella, non sia soltanto un esterno a me e perfino un estraneo a me, ma entri in me e io riesca con empatia almeno a non ferirlo e a non fargli del male se non proprio ad amarlo. Il rispetto dell’altro (RBo 28), così come la sopportazione, il “portare il peso dell’altro” (RBo 14), sono momenti importanti di questo processo che ci porta a formare una cellula del corpo di Cristo.
Ecco, le nostre letture della Regola alla compieta della domenica sera ci impegneranno d’ora in poi, nelle prossime settimane estive, in un cammino in cui faremo emergere questa dimensione formativa, ovvero, per dirla con il linguaggio della tradizione monastica, praktiké, pratica, volta cioè a fornire indicazioni sul cammino interiore, sul lavoro dell’anima, che sta alla base della maturazione di un essere personale e della costruzione di un corpo comunitario monastico.
Perciò, fratelli e sorelle, siamo sobri e vigilanti, perché il nostro Avversario, il divisore, come leone ruggente si aggira cercando una preda da divorare. Resistiamogli saldi nella fede e disposti a lasciarci formare ogni giorno dal vangelo, dalla Regola, dalla vita comune tra di noi. E tu, Signore, abbi pietà di noi.
fratel Luciano