La memoria della morte

 

15 01 29 alla sera della vita

“Porta in te il pensiero della morte”, ci dice tutta la tradizione ascetica. Allorché rammentate queste parole a un uomo d’oggi, egli le rifiuta: “come? Devo vivere per tutta la vita, la mia lunga vita d’uomo, nell’orrore della morte che verrà? Tutte le gioie devono essere avvelenate dalla certezza che avranno fine? Ogni amore deve essere terrorizzato dall’idea della sua perdita? Ogni bellezza non fa che manifestare il momento stessa della propria corruzione?”. Ma è davvero questo che volevano dire gli antichi asceti quando invitano a pensare costantemente alla morte? Credo di no. La morte è l’unico evento che possa farci crescere alla statura della vita. Senza la morte, la vita rischierebbe di essere così mediocre e meschina! Nell’istante in cui la morte si erge davanti a noi o entra, per esempio, nel nostro ambito familiare, tutto acquista una dimensione veramente umana, cioè divino-umana. Racconta Dostoevskij nel suo diario che il giorno della condanna a morte se ne stava in piedi davanti al luogo dell’esecuzione e si guardava tutt’intorno. Com’era splendida la luce, come gli sembrava meravigliosa l’aria che respirava, quanto era bello il mondo intorno a lui e prezioso ogni istante di vita, proprio mentre sostava sulla soglia della morte. “Oh! – si disse in quel momento – se mi concedessero la vita, non ne perderei un solo istante!”. Gli fu concessa, ma quanti istanti della vita andarono poi perduti! Se avessimo piena coscienza di tutto questo, come ci comporteremmo gli uni gli con gli altri, e anche con noi stessi? Se io sapessi, se voi sapeste che la persona con la quale parliamo tutt’a un tratto può morire, e che il suono della nostra voce, il senso delle nostre parole, i nostri gesti, il nostro atteggiamento verso di lei, le nostre intenzioni saranno le sensazioni estreme che porterà con sé nell’eternità, con quale attenzione, con quanta sollecitudine e amore allora ci comporteremmo! L’esperienza insegna che, di fronte alla morte, ogni offesa, ogni cruccio, ogni repulsione reciproca si annulla. La morte è troppo superiore, rispetto a cosa che dovrebbero già apparirci futili secondo l’ordine di grandezza della nostra effimera esistenza. Molte persone non sanno vivere, non possono vivere, perché non giungono a questa conoscenza della morte: non perché abbiano paura, ma perché continuano a spingere la morte in un futuro lontano, perché credono di lasciarla inaccessibile, e così non giungono mai alla piena misura della propria umanità. Questa piena misura noi possiamo raggiungerla solo scoprendo la grandezza della nostra umanità, attraverso una revisione tanto grande e profonda quanto lo sono le profondità umane. Allora scopriamo che queste profondità non sono solamente a misura d’uomo, ma a misura di Dio. C’è dunque nella coscienza della morte un affinamento del nostro senso della vita, l’acquisizione di una sensibilità particolare alla dinamica della vita. Solo il ricordo della morte ci rende pienamente uomini, grandi quanto la morte, e quindi grandi quanto la vita. Al di qua di tale presa di coscienza, siamo ancora al livello dei topi e rischiamo di non crescere mai.

A. Bloom, Alla sera della vita, Qiqajon, Bose 2000, pp. 30-35.