“Non vedo un fico secco!”
“Ah! Quello era il mio piede…”
“Sss… ci sentiranno!”
“Ma voi come siete arrivati fin qui?”
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Il sole sparge manciate di monete d’argento sulla superficie increspata del mar di Marmara mentre attraversiamo la triplice cinta merlata eretta dall’imperatore Teodosio a difesa della nuova Roma, la splendida Costantinopoli. È la fine del primo millennio e il piccolo monastero di san Mamante, appena restaurato dal suo nuovo igumeno, Simeone detto il Nuovo Teologo, si fa spazio a spintoni tra la folla di casupole che si accalcano in questa estrema propaggine della città.
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Quell’uomo solenne che svetta altero come un faro tra mareggiate di mendicanti, spruzzi di mani tese, scrosci di lamenti di sofferenti, è Basilio. Gli studi giovanili ad Atene hanno forgiato la sua eloquenza nel parlare, ma sono gli anni di vita comune ad Annisoi, in un monastero immerso nei boschi e custodito da alte vette, che gli hanno conferito la vera sapienza, quella della carità. Così, ora che è vescovo di Cesarea di Cappadocia, non si limita a tenere illuminanti sermoni la domenica, ma ha fondato accanto alla città una vera e propria cittadella dove pellegrini e ammalati, pazzi e nullatenenti possono trovare accoglienza. Al cuore di questo articolato complesso di edifici, un piccolo monastero, dove i gemiti si fanno preghiera. È là che Basilio ci invita a seguirlo, scorgendoci da lontano.
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“Ci scusi, sa indicarci abba Simone?” – chiediamo a un uomo distinto, che si fa spazio come noi tra la marmaglia che affolla la taverna in quest’ora della notte.
“Lo sto cercando anch’io” – ci urla in risposta per sovrastare il vociare alticcio di quel carnaio – “sono venuto a vedere se è folle come dicono o se fa solo finta di…”
“Cavalcami, abba matto; cavalcami, abba matto!”.
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