Non disperare mai
“Tornate alla cittadella, prigionieri della speranza” (Zc 9,12). Il pesante volume delle Scritture viene chiuso con un tonfo, mentre queste ultime parole tintinnano tra le fredde pareti di pietra, rifiutandosi di morire. Come un riflettore, un fascio caldo di sole fende la penombra e accende la figura scura seduta a capotavola davanti a noi.
“L’Italia è in guerra, padre Benedetto. Ovunque saccheggi, scontri, carestia. I Goti stanno devastando ogni cosa. Persino Roma è stata distrutta…”.
“Roma non è stata sterminata dai barbari – interrompe secco il padre dei monaci d’Occidente – è andata da sé stessa in rovina”.
“Per l’appunto, il male è così diffuso e profondo, come non perdere la speranza?”.
“Come non perdere la speranza? Ma quale speranza? Quand’ero più giovane di voi, demotivato studente romano, di fronte all’orrido abisso del mondo dissi semplicemente ‘No grazie, io non ci sto!’. Me ne fuggii sbattendo la porta, consapevolmente ignorante e sapientemente incolto e mi chiusi in una grotta in una località sperduta a diverse miglia da Roma, Subiaco”.
“E allora come sei finito a capo di questo grande monastero di Montecassino?”.
“Tutta colpa della Pasqua!”.
“Cioè?”.
“Dopo tre anni di completa solitudine, un giorno ecco sbucare dall’ingresso della caverna il volto di uno sconosciuto. Mi sorride e mi dice: ‘Oggi è Pasqua!’, tirando fuori da un cestino ogni ben di Dio. Rimasi folgorato! Il volto amico di quell’estraneo ha marchiato con un ferro arroventato di gioia la mia carne e la mia anima, rivelandomi l’umanità nuova che Cristo ha donato al mondo; un’umanità insignificante, eppure invincibilmente capace di cura. ‘So che è Pasqua perché ho la grazia di vederti’, gli grido. Lui resta interdetto e senza capire risponde: ‘Ma oggi è davvero il giorno di Pasqua’. Sì, era davvero Pasqua!”.
“E dunque?”.
“Quella Pasqua ha innestato in me un desiderio nuovo di fraternità”.
“Perciò hai lasciato la grotta e fondato il monastero?”.
“Non così in fretta. Furono dei monaci disperati a supplicarmi di far loro da guida, nonostante la mia giovane età. Non ne ero convinto, ma mi lasciai tentare dalla speranza. Accettai e cominciai a metterli in riga: erano peggio dei miei compagni di classe a Roma. Risultato: tentarono di avvelenarmi!”.
“Fidati dei monaci! Quindi sei fuggito di nuovo?”.
“Fuggii di nuovo, sì, questa volta però non da qualcosa ma verso qualcuno: me stesso. Ho abitato solo con me stesso, sotto gli occhi di Dio e ho imparato a non disperare mai della sua misericordia. Ecco la vera speranza! Affaticandoci giorno per giorno a causa dell’incorreggibilità frustrante degli altri, veniamo trascinati fuori da noi stessi, siamo sì in noi stessi, ma non siamo più con noi stessi perché abbiamo perso di vista il nostro uomo interiore. Quando invece la sconfitta ci costringe a gettare le armi, se fuggiamo verso noi stessi ci accorgiamo che dopo tutto noi non siamo migliori di quelli che ci sforzavamo di correggere. Allora sprofondiamo nello scoraggiamento non solo per il mondo, non solo per gli altri, ma anche per noi stessi. Eppure, è proprio quel giorno e da quel giorno ogni giorno, che ci è dato di ascoltare la voce della Misericordia che ci invita a risorgere, a ricominciare: ‘Chi è l’uomo che vuole la vita e desidera vivere giorni felici?’. Se rispondi ‘io’, rialzati, sotto la spinta del tuo desiderio di bene”.
“Ci manca ancora un passaggio però: come sei arrivato a essere abate di una comunità correggendo solo te stesso?”.
“Il fatto è che Dio ha il senso dell’ironia e fa sì che chi comincia dal correggere gli altri finisca da solo, mentre chi comincia a correggere sé stesso finisce in compagnia. Sono molti infatti, più di quanti si immagini, quelli che a quella voce rispondono ‘io’. È così che attorno alla mia solitudine si è raccolta una comunità, potremmo dire una scuola di umanità”.
“Perché una scuola?”.
“Perché il fallimento mi ha impartito un’altra lezione sulla speranza: per non spegnersi ha bisogno di gradualità. Bisogna allenarsi poco per volta, giorno dopo giorno, come gli atleti, perché il cuore si dilati e ciò che prima ci sembrava impossibile ci risulti addirittura facile”.
“E così siamo giunti al lieto fine…”.
“Non così in fretta, figlio mio – sussurra l’abate mentre inattese lacrime di piombo serrano i suoi occhi – Dio mi ha rivelato che questo monastero sarà presto distrutto dai Goti”.
“È così ingiusto! Dunque tutta la tua fatica non è servita a nulla?”.
“È che la speranza è vera solo quando ti tiene prigioniero. Ora prego e spero che almeno ai miei fratelli sia risparmiata la vita, poco importa di questi begli edifici”.
“E se non sarai esaudito? Se la tua preghiera non troverà ascolto? Se vincerà il male?”.
“A noi spetta solo il cominciare e ricominciare, chiedendo a Dio con costante e intensa preghiera di portare a termine quanto di buono ci proponiamo di compiere” – conclude, alzandosi da tavola e afferrando un catino e una brocca d’acqua. Lava le mani a ciascuno di noi con rispetto e tenerezza e ci serve il pranzo, affermando che oggi siamo noi la sua Pasqua.*
* Le parole di Benedetto da Norcia sono tratte o ispirate sia dalla Regola da lui scritta, sia dalla sua vita, descritta da papa Gregorio Magno nel secondo volume dei suoi Dialoghi.