“Qual è il tuo nome?”
Mc 5,9
9Gesù domandò a quell'uomo: «Qual è il tuo nome?». «Il mio nome è Legione - gli rispose - perché siamo in molti».
Carissime amiche, carissimi amici,
eccoci giunti a un’altra tappa del nostro viaggio e questa volta la domanda di Gesù che risuona nel vangelo è quella domanda che spesso anche noi ci sentiamo porre, o poniamo, quando incontriamo qualcuno: “Qual è il tuo nome? Come ti chiami?”.
Questa domanda potrebbe sembrarci banale e scontata, una forma di cortesia che non ha nulla di speciale da dirci, nulla su cui riflettere, nulla da darci in più… in realtà se guardiamo più da vicino il contesto in cui Gesù la pone scopriamo che apre molti possibili itinerari al nostro viaggio.
Siamo al capitolo quinto del Vangelo secondo Marco (potremmo anche seguire il testo di Lc 8,26-39 che contiene la stessa domanda ed è un copione di Marco) e Gesù ha appena “tranquillizzato” il mare agitato perché in preda alla forza di una tempesta di vento, e ora “tranquillizzerà” un uomo, anch’esso agitato e in preda alla forza di una legione di spiriti impuri. È un uomo che, a causa di questa forza che lo abita, è isolato, vive fuori della comunità, in mezzo alle tombe, in un luogo di morte e non di vita. È un uomo che nessuno riesce ad aiutare, forse perché il metodo è sbagliato, infatti si cerca di legarlo mentre Gesù lo restituirà a una vita dignitosa, non legandolo ma piuttosto liberandolo!
C’è quindi una situazione di isolamento, di marginalità, di esclusione di qualcuno che probabilmente è sentito come una minaccia, come un pericolo, anche se in realtà quest’uomo fa male solo a sé stesso (il testo dice che percuote con pietre sé stesso, non altri).
È una situazione che vediamo anche noi ogni giorno: persone che vengono isolate perché diverse e ritenute pericolose. È quello che avviene quando la paura ha la meglio su tutto.
Gesù invece non ha paura, o se ce l’ha sa educarla, sa “gestirla”. Egli quando vede accorrere verso di lui quest’uomo non scappa, anzi sa cogliere subito in lui una vittima più che un potenziale aggressore e subito cerca di aiutarlo liberandolo dalle forze di male che lo abitano: “Esci spirito impuro da quest’uomo!” dice con risolutezza.
Notate che quest’uomo è talmente succube del male che lo abita da indentificarsi con esso… impressiona come egli non parli mai in prima persona ma sempre dia voce a questa forza che agisce in lui.
Anche noi spesso ci identifichiamo, o etichettiamo gli altri, con il male che facciamo, con il limite o il peccato che ci abita, con la fragilità che ci caratterizza, ma dovremmo sempre ricordarci che noi non siamo questo, o quantomeno non siamo solo questo, perché siamo soprattutto persone amate e cercate dal Signore, persone accolte dal suo amore, persone che lui desidera liberare e restituire alla piena dignità di figlie e figli del Padre, persone chiamate a narrare le meraviglie che lui compie in noi.
“Qual è il tuo nome?”. Gesù ci interroga e ci invita a riflettere su cosa noi sentiamo prevalente, cosa abita il nostro cuore e le nostre vite: “Il mio nome è Legione perché siamo molti”, gli risponde quell’uomo, e nominando il male che agisce in lui, da un lato compie il primo passo per “addomesticarlo” e dall’altro per liberarsene. Dare un nome significa circoscrivere, significa uscire dalla zona di indefinito che rende tutto “più mostruoso” di quello che è, sia dentro sia fuori di noi.
Dare un nome significa cominciare a conoscere e conoscersi, significa dare dei contorni a ciò che altrimenti sentiamo come incontenibile: “Siamo molti” … sì, ma non così tanti da non stare in una mandria di porci, una mandria numerosa sì (circa 2000 porci specifica Marco) ma non indefinita. “Siamo molti” ma non il tutto: il male che ci abita, che noi non riusciamo a contrastare, può essere tanto ma non è il tutto di noi e Gesù sa guardare oltre esso e sa avere misericordia di noi.
Nominare il male che ci abita è il primo passo per essere liberati, per imparare a non esserne in balia, agitati e scomposti, ritrovando la nostra postura di creature amate e benedette.
Nominare il male che ci abita significa esporsi all’azione liberante del Signore, il quale non vuole trattenerci a sé, sostituendo una schiavitù all’altra, ma ci libera affinché noi possiamo essere liberi (come dice Paolo in Gal 5,13), possiamo camminare con le nostre gambe per le vie del mondo annunciando il suo amore e il suo agire benefico.
Nominare il male che ci abita è dare spazio allo Spirito santo che può scacciare gli spiriti impuri e spogliandoci dell’uomo vecchio ci riveste dell’uomo nuovo, fatto a immagine di Cristo, capace di amore e di libertà.
Gesù ci libera prendendo su di sé quella marginalizzazione nella quale il male ci spingeva: se all’inizio del nostro racconto era l’uomo posseduto dallo spirito malvagio a essere isolato dai suoi concittadini, alla fine è Gesù che viene allontanato: “Si misero a pregarlo di andarsene dal loro territorio” (Mc 5,17). Questi uomini non vedono il bene che Gesù ha fatto ma solo il danno che ha arrecato loro liberando l’uomo indemoniato e, probabilmente, avrebbero preferito che quell’uomo restasse nella sua schiavitù piuttosto che perdere i loro porci.
Il cambiamento spaventa sempre, anche quando è un cambiamento che ridona vita a chi viveva “tra i morti”, ridona libertà a chi era schiavo di forze incontenibili, ridona dignità a chi era isolato ed escluso.
Anche a noi il Signore chiede: “Qual è il tuo nome?” e noi cosa rispondiamo? E noi rispondiamo? Il Signore ci chiede di “dirci” con semplicità e fiducia, perché lui ci accoglie così come siamo e prendendoci per mano ci fa salire sul treno che ci conduce a terre di libertà e dignità, treno sul quale noi possiamo viaggiare tranquilli e dialogando con gli altri passeggeri (cosa che ormai più nessuno fa!) narrando gli uni agli altri da dove veniamo e verso dove andiamo.
Anche noi, come quest’uomo dal Signore sanato e liberato, possiamo compiere il viaggio dall’agitazione alla piena padronanza di noi (significata nel racconto di Marco da quel stare seduto composto di colui che prima si agitava tormentandosi, v. 5), viaggio che avviene attraverso stazioni intermedie che sono la capacità di conoscersi, di nominare ciò che ci abita, esponendosi all’agire del Signore, stando seduti presso di lui, attingendo da lui la libertà delle figlie e dei figli di Dio, libertà che, strappandoci dall’isolamento, ci apre alla relazione, libertà che ci dona la possibilità di ripartire sempre, oltre ogni stazione in cui ci fermiamo, in cui facciamo sosta per rinnovare la nostra forza e la nostra gioia.