Fraternità che resta umana
La nostra vita comune non deve essere una parvenza di fraternità umana, in nome della fraternità “soprannaturale” che è. Sarà un’autentica fraternità soprannaturale soltanto se è una fraternità umana autentica. L’interdipendenza che lega i membri della fraternità li sottomette gli uni agli altri. Ognuno deve considerare gli altri come persone che gli sono affidate, tutti devono essere consapevoli che ognuno dei fratelli gli è stato affidato; affidato come si affida qualcuno ad un amico prima di morire. E’ vero che questa responsabilità è compito particolare dei responsabili; ma nessun responsabile potrebbe assumerla se prima non possiede questo senso della fraternità, e se nella comunità stessa fosse assente questo senso concreto ed esigente della fraternità. E’ estremamente facile dilapidare questo tesoro. Bastano dei comportamenti inumani: accettare delle fatiche oltre le proprie possibilità, accettare per altri condizioni di vita anormali che non si condividono con loro e alle quali non si cerca di rimediare dando un aiuto eccezionale fornito dalle nostre persone. L’umile campo della casa e della tavola, se sono in comune, sono da soli una miniera di carità. Non dimentichiamo che nulla ci è di aiuto, né delle abitudini comuni, né una comune origine geografica, né un atavismo e neppure una età comuni. Si potrebbe essere tentati di ricercare un’atmosfera prossima all’amicizia, ma si sceglierebbe una strada sbagliata. L’amicizia infatti ha una base di conoscenza; nasce da una conoscenza reciproca. Nella fraternità si parte da un fatto reale: la scelta da parte di qualcuno, che fino a ieri non conoscevamo, del nostro medesimo fine. Questa scelta ci lega in una medesima volontà di Dio. Noi dobbiamo sempre agire in funzione di un cuore che esiste. Siamo cattivi figli di Dio se noi non cerchiamo di assomigliargli nel cercare di essere per i nostri fratelli causa di gioia. Ci facciamo delle illusioni se pensiamo di poter adottare una specie di immobilismo neutrale. Quando non diamo felicità, è raro che non causiamo almeno un po’ di disagio, un po’ di disturbo. Soprattutto dobbiamo puntare al cuore quando un fratello ha qualche cosa che, normalmente, può farlo soffrire. Non è bello soffrire soli quando Dio non lo ha espressamente voluto. Anche il Signore ha cercato di non soffrire da solo. Egli ha gridato contro l’abbandono di Dio dopo aver subito l’abbandono degli uomini. Davanti alla sofferenza non dobbiamo allontanarci da una duplice linea di condotta: - non bisogna negare che i nostri fratelli soffrano di cose di cui noi non soffriremmo noi - almeno così crediamo; - quando li colpisce un avvenimento doloroso, non bisogna aspettare che ci manifestino la loro sofferenza per aiutarli. Infine, non è forse inutile aggiungere che, per essere fraterna, la compassione deve comprendere il corpo e l’anima ed immedesimarsi totalmente nel dolore che compatisce. Nella fraternità, deve essere considerato sbagliato e ingiusto, giudicare uno di noi in base all’intelligenza o alla sua cultura. Quello che vale è l’equilibrio fra la mente e il cuore, e più ancora la trasformazione della propria cultura in carità. In questa prospettiva acquisterà il suo valore ogni conoscenza, e non soltanto quella dei libri.