Rimanere
5 maggio 2024
VI domenica di Pasqua
Giovanni 15,9-17
di Sabino Chialà
In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: «9Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. 10Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. 11Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena.12Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. 13Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici. 14Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando. 15Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l'ho fatto conoscere a voi. 16Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda. 17Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri.
Il tempo pasquale volge ormai al termine. Il Risorto, che ha accompagnato i suoi in un lento cammino di rinascita, al compiersi dei quaranta giorni che indicano il tempo necessario, torna al Padre, lasciando ai suoi la promessa dello Spirito santo. All’orizzonte vi è una nuova sottrazione che i discepoli dovranno vivere. Esperienza di ogni credente e della Chiesa, cui è tuttavia fatto dono dello Spirito sceso a Pentecoste.
Quella sottrazione però non equivale ad abbandono. Il Signore rimane, in altro modo, con i suoi. Rimane/dimora (méno) - verbo così caro al quarto Vangelo - con coloro che rimangono/dimorano in lui. Rimane come pastore che guida il suo gregge verso la vita, deponendo la propria, come abbiamo ascoltato nella quarta domenica del tempo di Pasqua. Rimane come vite che trasmette la sua linfa a chi è innestato in lui, secondo l’immagine evangelica di domenica scorsa, la quinta di Pasqua.
Ma appunto, rimane con chi accetta di rimanere in lui; e nel vangelo di questa domenica il Risorto ci indica le due vie attraverso le quali si realizza nella storia e nella concretezza delle singole esistenze, il nostro rimanere in lui, in un brano che possiamo considerare come una variazione giovannea del duplice comandamento dell’amore riportato dai Sinottici (cf. Mc 12,30-31). Un brano, il nostro, che possiamo facilmente dividere in due piccole sezioni, corrispondenti, appunto, ai due comandamenti.
Innanzitutto (vv. 9-11) si tratta di rimanere in lui, nell’intimità con lui: “Rimanete nel mio amore” (v. 9). Il Gesù del quarto Vangelo non chiede di amare Dio, né di amare lui, il Figlio. Chiede invece di rimanere nel suo amore, cioè di fare esperienza di questo amore donato. Risposta umana all’azione di Dio è riconoscere e accettare di dimorare nell’azione amante del Padre, attraverso il Figlio. Questo Gesù lo ha imparato dalla sua esperienza filiale: “Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi” (v. 9). Li ha amati con quella stessa libertà, con quel medesimo amore preveniente e immeritato che ha avvertito come sguardo del Padre su di lui.
Amare, per Giovanni, è azione attiva, ma di accoglienza. Accoglienza che è possibile tramite l’osservanza/custodia dei comandamenti: “Se osserverete/custodirete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore” (v. 10). Il verto teréo, qui impiegato, e che siamo soliti tradurre con “osservare” significa anche “custodire”, un’accezione più adatta quando si tratta di comandamenti. Non si richiede infatti un’osservanza legalistica, ma una custodia nel profondo, da cui possa sgorgare un agire conseguente. Nei comandamenti si dimora e così si dimora nel pensiero di Colui che ne ha fatto dono, e dunque in lui stesso. Così era stato anche per Gesù: “Come io ho osservato/custodito i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore” (v. 10).
L’esito di questo rimanere, attraverso l’osservanza/custodia, è poi la gioia: “Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena” (v. 11). L’autentica osservanza dei comandamenti porta alla gioia, o non è osservanza evangelica. La legge o è liberante, anche attraverso la fatica, o non è ciò per cui il Signore l’ha voluta e donata.
Ecco dunque un’eco del primo comandamento, quello dell’amore per Dio, prima via per dimorare nel Figlio e nel Padre, attraverso di lui, ora che non è più fisicamente tra i suoi. Dimorare in un amore ricevuto, custodendo i comandamenti e lì fare esperienza della vera gioia.
Viene poi (vv. 12-17) il “secondo” comandamento, come lo definisce l’evangelista Marco (Mc 12.31). L’altra via, per Giovanni, di dimorare in quel Signore che sta per ritornare al Padre: “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi”. Ma con una particolarità importante: in Giovanni questo “comandamento” (al singolare) riassume e non si affianca ai “comandamenti” (al plurale) di cui aveva parlato nella prima sezione. Come a dire che l’amore reciproco, o del prossimo, non si aggiunge all’amore di Dio, nella misura in cui i comandamenti che rendono possibile dimorare nel primo amore sono riassunti nel comandamento unico dell’amore reciproco (analogamente Lc 10,27, a differenza di Mc 12,30-31, fa dei due un unico comandamento).
Per imparare questo amore fraterno, Gesù chiede di guardare ancora a lui, a come egli ha vissuto stando con loro. Lì ha mostrato la forma più grande dell’amore, deponendo la sua stessa vita: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici (fíloi)” (v. 13). Anche per questo secondo amore richiesto agli umani, all’origine vi è un dono: l’amicizia resa possibile da Gesù, tramite l’offerta della propria vita. A quel dono è però necessario fare spazio, e ancora una volta ciò avviene grazie all’osservanza/custodia di una parola ricevuta: “Voi siete miei amici se fate ciò che vi comando” (v. 14). L’osservanza di quel comando non è la condizione dell’amicizia, ma la via per la quale essa potrà sprigionare le sue energie e rendersi concreta.
Il comandamento che Gesù lascia ai suoi non ha nulla di legalistico. Si tratta di una parola che Gesù ha ricevuto e ora trasmette: “Vi ho chiamato amici perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi” (v. 15). Si tratta di una parola che è capace di intessere legami di intimità, di amicizia. Non crea servi, ma amici; non imprigiona, ma libera in profondità e così produce frutto: “Vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga” (v. 16).
Questo frutto è l’amore del prossimo, come Gesù ribadisce nel versetto conclusivo: “Questo vi comando: Che vi amiate gli uni gli altri” (v. 17). Interessante notare il fatto che il comando dell’amore vicendevole apre e chiude questa sottosezione (vv. 12 e 17), formando una sorta di cornice al cui interno troviamo la descrizione del modo in cui Gesù ha amato i suoi, come a ricordare che quello che è chiesto ai discepoli si modella sull’esperienza da essi fatta nell’essere stati amati, come degli amici, di un amore oblativo, dal Maestro stesso. Anche qui, dunque, ai discepoli è chiesto di rispondere al dono ricevuto, come per il primo genere di amore.
Il Risorto, che sta per tornare al Padre, rimane intimamente legato ai suoi e in mezzo a loro, come ha mostrato fin dalla sua prima manifestazione agli Undici rinchiusi per la paura. Il duplice – e medesimo – amore qui descritto è ciò che i discepoli di ogni tempo sono chiamati a vivere per dare carne al dimorare del Risorto nella storia: dimorare nell’amore del Cristo e dimorare nell’amore fraterno.
Ciò è possibile nella misura in cui facciamo spazio nelle nostre vite alla sua Parola, ai suoi/suo comandamenti/o, perché il Signore abita in noi e in mezzo a noi, attraverso quelle sue parole che noi lasciamo abitare nel nostro cuore e tra di noi.
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