Un sogno di umanità
29 marzo 2024
Is 52,13-53,12 - Gv 18,1-19,42– Eb 4,14-5,10
di Sabino Chialà
Fratelli e sorelle,
siamo qui radunati, in quest’ora del venerdì santo, per fare memoria e rivivere la passione e la morte di Gesù. Evento, soprattutto la morte, variamente definito: tragico e infamante, glorioso e salvifico. Scandalo e follia, come l’apostolo Paolo definisce la croce nella sua prima lettera ai cristiani di Corinto (cf. 1Cor 1,23).
Siamo nel momento della massima aporia, dove un senso si fa difficile da trovare, anche per chi, per fede, sa che quella morte tragica è salvifica. Siamo davanti a uno dei tratti della vita di Cristo tra i più scandagliati fin dalle origini e tra i più difficili da comprendere, ancora per noi oggi. Forse l’unica parola sensata che possiamo ripetere senza timore è quella di un padre della Chiesa siriaca, Isacco di Ninive, che vede in quella morte solo l’eccesso dell’amore di Dio per l’umanità: “Io dico – afferma - che Dio non ha fatto questo [lasciare che il Figlio morisse in croce] per altro motivo se non per far conoscere al mondo il suo amore”.
Se il Gesù curvo, che abbiamo contemplato ieri sera nella Cena, può ancora avere un senso umanamente comprensibile – il senso di chi serve, di chi incoraggia a vivere, scardinando le logiche idolatriche e indicando la via della comunione fraterna – oggi sembra che tutto si risolva in un completo fallimento e dunque nonsenso.
Difficile da comprendere questo Messia che si lascia catturare, condurre e infine uccidere sulla croce, in quel supplizio disumano! E siccome, come dicevo già ieri sera, noi siamo qui non solo a nome nostro, ma vogliamo esserci come parte di questo mondo, che di supplizi ne conosce fin troppi, la domanda sorge spontanea: quale buona notizia (quale evangelo) ci viene dal Crocifisso? Perché se il Vangelo di oggi non è buona notizia, vana è la nostra fede e vuota la nostra testimonianza cristiana.
La croce ci salva, certo! Ma non magicamente! Né perché placa l’ira del Padre (un’aberrazione che ha accompagnato il pensiero cristiano, ma contro cui reagiscono già padri della Chiesa come Gregorio di Nazianzo e Agostino).
La croce ci salva perché racconta, visivamente e tragicamente, un sogno di umanità, che Gesù già vive e che a noi trasmette per grazia e lascia in eredità. Il sogno di una umanità che sa affrontare il male diversamente da come noi siamo portati a fare. Quel male ineluttabile che neppure Gesù ha eliminato, pur avendolo sconfitto.
Con la sua passione e morte, Gesù ci salva non solo in senso metafisico ma anche storico, indicando una via da seguire, come raccomanda l’apostolo Pietro nella lettura che abbiamo ascoltato questa mattina: “Cristo vi ha lasciato un esempio, perché ne seguiate le orme” (1Pt 2,21). Sono queste orme che vogliamo ancora una volta tentare di seguire in quest’ora, rimeditando i testi biblici che anche questo venerdì santo abbiamo ascoltato.
Nel testo di Isaia abbiamo riascoltato il dramma del Servo del Signore. Una vicenda enigmatica, con cui certamente Gesù si è confrontato. Si parla di un uomo travolto da un male smisurato, che lo conduce fino allo sfiguramento: “Tanto era sfigurato per essere d’uomo il suo aspetto” (Is 53,14). Un essere umano di cui non ci è conservata alcuna parola, ma solo si narra il suo rimanere sotto quel carico di sofferenza. Una storia come tante… in cui il Servo sembra puramente passivo.
Perché agisce così? Solo perché non può sottrarsi? E poi: con quale animo? Forse non sapremo mai con quale animo il Servo ha vissuto quell’umiliazione, tuttavia il racconto mette in luce un esito di quella umiliazione: il futuro cui apre, la discendenza: “Quando offrirà se stesso … vedrà una discendenza, vivrà a lungo” (Is 53,10); e ancora: “Io gli darò in premio le moltitudini” (Is 53,12).
Non sappiamo se e quanto egli ne fosse consapevole, ma certo è che quella sua sofferenza ha portato un frutto prezioso: un futuro possibile. Possiamo solo ipotizzare - non affermarlo con certezza - che quella consapevolezza lo abbia sostenuto. Possiamo però cogliere qui qualcosa di utile per noi e per il nostro mondo: per attraversare il buio del male è necessario coltivare il futuro nel cuore.
La lettera agli Ebrei rilegge invece la vicenda di Gesù, in particolare la sua passione, nella sua valenza di compassione: “Non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze: egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato” (Eb 4,15). Una compassione che guarisce, che trasforma, che non si arrende.
La lettera agli Ebrei sottolinea così il fatto che Gesù ha dimorato in quella sofferenza per un atto di amore compassionevole, partecipativo, facendosi prossimo alle sofferenze dell’umanità, portando e guarendo, restando accanto.
Restare nella sofferenza aprendo un futuro (il Servo di Isaia) o restarvi per condividere il presente (il Gesù della lettera agli Ebrei) sono due tratti che possiamo cogliere dalla prima e dalla seconda lettura. Ambedue sono presenti anche nel racconto evangelico. Qui però, più che altrove, emerge anche quello che definirei il presupposto di una tale capacità di futuro e di presente: la fermezza di Gesù nel non lasciarsi contaminare dal male, né paralizzare, né scoraggiare. È questo presupposto, il tratto che vorrei ora cogliere brevemente nella lettura della passione.
Il racconto della passione nel quarto Vangelo ci rappresenta un Gesù che più che mai resta il Signore. Non si tira indietro, ma agisce responsabilmente: chiede, interroga, si prende cura, provoca a pensare.
Fin dall’inizio, nel giardino, chiede: “Chi cercate” (v. 18,4); afferma: “Sono io” (v. 18,5). Si prende cura dei suoi: “Se cercate me, lasciate che questi se ne vadano” (v. 18,8).
Davanti ai sacerdoti Anna e Caifa, le sue parole sono ferme e rispettose: “Io ho parlato al mondo apertamente … interroga quelli che hanno udito” (v. 18,20-21). Sanno anche chiedere conto con la mite tenacia di chi non si rassegna: “Se ho parlato male, dimostrami dov’è il male. Ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?” (v. 18,23).
A Pilato, invece, chiede conto delle fonti di quanto afferma: “Dici questo da te, oppure altri ti hanno parlato di me?” (v. 18,34). Lo provoca sulla sua responsabilità di giudice, che è quella di cercare la verità, facendo emergere il suo atteggiamento di uomo di potere, per il quale il tema “verità” è irrilevante: “Cos’è la verità?” (v. 18,38). Sottinteso: “Povero illuso che, in quella situazione così compromessa, cerca ancora la verità!”. Infine ha il coraggio di ricondurre Pilato a quello che è davvero: un pezzo di ingranaggio nella macchina di quel tipo di potere: “Tu non avresti alcun potere, se ciò non ti fosse dato dall’alto” (v. 19,11).
Ma c’è un ultimo tratto di questo racconto in cui Gesù mostra la sua capacità di non lasciarsi paralizzare dal male, proprio nel momento della morte, quando il quarto vangelo mette in luce tutta la sua signoria. Agli occhi del mondo Gesù è un uomo finito e anche lui sa che gli manca poco, eppure lui pensa al futuro! Mi riferisco all’episodio in cui affida il discepolo alla madre e la madre al discepolo: “Vedendo la madre e accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: ‘Donna, ecco tuo figlio!’. Poi disse al discepolo: ‘Ecco tua madre!’” (v. 19,26-27). Una scena spesso interpretata come l’estremo atto di pietà filiale (di cui Gesù in vita era stato abbastanza avaro). Ma non si tratta di questo. L’intento di Gesù è, invece, quello di aprire un futuro a quel brandello di comunità che vede ai piedi della croce: altro atto di responsabilità e di resistenza al male. A differenza del Servo del Signore, Gesù è consapevole del futuro, mentre attraversa il buio del presente.
Quale dunque la buona notizia di quanto stiamo celebrando e rivivendo? Quale buona notizia per noi e per il nostro mondo?
In un male che avvolge tante parti del nostro mondo con la sua tenebra e che a volte sembra soffocarci, in un male disumano che assomiglia tanto a quello che abbiamo ascoltato poco fa nel canto delle Lamentazioni (immagini purtroppo di attualità), l’evangelo che oggi ci raggiunge, e nel quale vogliamo rinnovare la nostra fede, è quello di un Dio che per puro amore nei confronti dell’umanità non ha esitato a sopportare la morte del Figlio; e di un Dio che a noi indica la via per poter vivere da cristiani anche il male.
Per questo noi celebriamo e riviviamo la morte del Signore in quest’ora del venerdì: per fare memoria dell’infinito amore di Dio per l’umanità intera; e per imparare da lui ad attraversare il male. Quel male che non vogliamo dimenticare, quel male che in questo momento affligge tanti nostri fratelli e sorelle di cui tra poco faremo menzione nella preghiera universale. Quel male che le Scritture ci insegnano ad abitare da credenti: guardando al futuro, vivendo nella compassione per chi ci sta accanto, non lasciandocene abbrutire.
Il male ha una grande forza di attrazione, e la sua prima vittoria è quella di conviverci dell’inutilità della lotta. Gesù ha sconfessato questo pensiero con il suo modo di attraversare la passione: mentre stavano per arrestarlo, si prende cura dei suoi; alle autorità religiose che calcolano e cercano il modo di eliminarlo nel modo più subdolo, chiede conto del loro agire; in Pilato, che cerca solo di difendere il suo potere, cerca di risvegliare il senso della verità; e mentre tutto volge al termine, lui guarda al futuro della comunità.
Questi tratti dicono, anche nel concreto, come la passione e morte di Gesù siano un atto di amore, e dunque di salvezza, per l’umanità intera; e sono evangelo, cioè buona notizia, per ciascuno di noi e per il nostro mondo.
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