Così anche voi
15 maggio 2022
Giovanni 13,31-35
V domenica di Pasqua
di Luciano Manicardi
In quel tempo 31Gesù disse: «Ora il Figlio dell'uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in lui. 32Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito. 33Figlioli, ancora per poco sono con voi; voi mi cercherete ma, come ho detto ai Giudei, ora lo dico anche a voi: dove vado io, voi non potete venire. 34Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. 35Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri».
Il vangelo di questa V domenica di Pasqua presenta Gesù che dà il comando nuovo che si trova al cuore dell'alleanza nuova: "Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri" (Gv 13,34). Tratta dai discorsi di addio di Gesù nel IV vangelo, la pericope liturgica presenta l’eredità, cioè il dono e il compito, che Gesù lascia ai suoi discepoli: l’amore, l’agape. Gesù trasmette ciò che ritiene irrinunciabile per i suoi discepoli nel futuro. Gesù sta disponendo la sua eredità, come sempre avviene quando si avvicina la fine della vita. Trasmettere ha infatti a che fare con la morte. Ha scritto Régis Debray: “Noi trasmettiamo affinché ciò che viviamo, crediamo e pensiamo non muoia con noi”. La trasmissione ci mette a contatto con il problema della morte. Ma Gesù non trasmette semplicemente “qualcosa”, bensì la sua forma vitae, e la sua vita è stata caratterizzata da quell’amore che è il più potente antidoto nei confronti della morte. Espresso in forma di comando (”Amatevi”), l’amore che Gesù chiede di praticare ai suoi discepoli, ha forma pasquale, chiede un’uscita da sé da parte del discepolo per accogliere in sé la forma di Cristo, e “forma e figura di Cristo in noi è l’amore” (Cirillo di Alessandria). Vivere l’amore come Gesù l’ha vissuto significa partecipare alle energie del Risorto, passare dalla morte alla vita, significa confessare nelle relazioni quotidiane la fede pasquale. Come l'amore vissuto da Gesù è la forza intima della resurrezione, così Gesù indica ai discepoli la via dell'amore come via per fare della resurrezione una prassi, per vivere cioè la novità cristiana narrando esistenzialmente nel quotidiano che la morte non ha l’ultima parola.
L'affermazione di Colui che siede sul trono trasmessa in Ap 21,5 "Io faccio nuove tutte le cose" trova una sua ermeneutica nella resurrezione di Gesù. La resurrezione è il punto di vista da cui guardare ogni cosa in modo radicalmente nuovo. Tra prima e dopo la resurrezione di Gesù nella vita degli uomini e nella storia non è cambiato nulla, le tragedie storiche e i drammi personali non sono finiti, e gli umani mostrano con ostinatezza il loro perseverare negli errori, nei vizi e nelle follie di sempre, ma la resurrezione consente di guardare tutta la realtà da un altro punto di vista e di coglierla come occasione di fare qualcosa di nuovo in noi e tra di noi, dunque nelle nostre vite personali ed ecclesiali, e anche nelle vicende storiche. La resurrezione ci insegna non tanto ad aspettarci cose nuove e diverse fuori di noi - sarebbe deresponsabilizzante -, ma ci infonde la responsabilità di vivere in modo nuovo le realtà spesso penose e dolorose del quotidiano, ci porta a guardare in modo nuovo e diverso le solite storie e le consuete esistenze. È il punto di vista della resurrezione, ovvero della pratica concreta dell'amore, che porta Gesù a guardare il tradimento di Giuda, che è l'evento che apre la pericope evangelica di oggi (“Quando Giuda fu uscito”: Gv 13,31), come occasione di amore, come possibilità che gli viene concessa di vivere con amore. Gesù non rende migliore Giuda, non lo cambia, non lo converte, nemmeno lo distoglie con opera di convincimento, con esortazioni, con minacce, con esclusioni, da ciò che ha in mente di fare, ma accoglie il reale, e ne fa l'occasione di vivere l'amore e di narrare concretamente l'amore di Dio. Anzi, per Gesù, il tradimento di Giuda è l'occasione di amare anche chi si fa suo nemico. Di narrare dunque che l'amore di Dio è per tutti, non solo per alcuni. È anche per chi amabile non è, non solo per chi lo è.
Il vangelo pone in stretta relazione l'uscita di Giuda dallo spazio comunitario con la glorificazione di Gesù (cf. Gv 13,31). Il gesto di tradimento, che poteva essere esecrato e biasimato, giudicato e condannato, divenire motivo di espulsione di Giuda dal gruppo comunitario, viene visto da Gesù all'interno della sua storia con il Padre e dunque come segno della sua glorificazione. La domanda che emerge e che pone in crisi le nostre reazioni, i nostri modi di ragionare e di comportarci anche nella vita ecclesiale è: che uso facciamo delle situazioni di conflitto o di ingiustizia? Come ci relazioniamo alle difficoltà che una persona ci pone con un comportamento ingiusto e offensivo? Spesso la nostra prima reazione è l'autodifesa, che è più che legittima e probabilmente anche doverosa in molte occasioni se non sempre. Tuttavia, qui Gesù mostra un comportamento altro. Per comprenderlo dobbiamo cambiare il punto di vista a partire dal quale consideriamo la realtà e gli altri. Il gesto di Giuda è occasione per Gesù di domandarsi come continuare ad amare Giuda anche in quella situazione. Gesù si trova glorificato dal modo con cui decide (perché di decisione si tratta) di amare Giuda fino alla fine. Il capitolo 13 di Gv inizia dicendo che Gesù amò i suoi fino alla fine. Qui ama Giuda fino alla fine. E se l'elevazione sulla croce sarà per Gv il segno dell'avvenuta glorificazione e la croce sarà il luogo in cui Gesù narra Dio pienamente, in verità questa glorificazione avviene ora, nella decisione con cui Gesù sceglie di non opporsi al malvagio. Gesù sta mostrando ai suoi che tutto, tutto, può essere vissuto in modo evangelico, ovvero sotto il segno dell'amore. Anche il male che l'altro compie. È chiaro pertanto che l’ora della sua glorificazione non è suscitata da Giuda con il suo gesto, ma dall'amore di Gesù stesso che ha amato i suoi "fino alla fine" (Gv 13,1). Gesù perdona, ovvero, continua ad amare con fedeltà chi smette di amarlo, chi lo tradisce, chi gli mente. E così narra esistenzialmente che l'amore è più forte della morte, che amare è prassi di resurrezione, e questo paradossalmente proprio nel momento in cui quello stesso amare lo condurrà alla morte. Le parole di Gesù: "Ora, il Figlio dell'uomo è stato glorificato" (Gv 13,31) suonano come un grido di vittoria: vittoria perché il male non ha soffocato l'amore, perché la delusione e l'amarezza per il tradimento dell'amico non hanno impedito a Gesù di perseverare unilateralmente nell'amare. Questa vittoria di Gesù sul male altrui senza che questo male renda cattivo o attiri nelle sue spire di malvagità anche lui, è resurrezione. Ecco dunque che Gesù, che sta per lasciare i suoi, che ha lucida coscienza del futuro immediato che gli sta di fronte, per non lasciare soli i suoi, lascia loro un'eredità, l'indicazione dell'amore come via per praticare la resurrezione. Nella pratica dell’agape vi sarà continuità di Gesù con i suoi discepoli nella storia.
Qui noi vediamo l'esperienza umana che sottostà al nostro testo. Vediamo quale sia l'umanità di Gesù. Egli consegna ai discepoli il comandamento di amarsi gli uni gli altri come lui stesso li ha amati. San Gerolamo scrive: "Se questo fosse anche l'unico comando del Signore, basterebbe". Che cosa vuole Gesù che rimanga di lui dopo la sua dipartita? L'amore dei suoi discepoli tra di loro. Non dice “amatemi”, ma dice “amatevi”, “amatevi gli uni gli altri”. Gesù chiede che coloro che vivono la vita cristiana si amino. "Come io ho amato voi, così voi amatevi gli uni gli altri". Come io: si tratta per noi di trovare in Gesù, nella sua vita, nella sua prassi di amore e di incontro, il fondamento e la misura da assumere nelle nostre vite per amare coloro che sono accanto a noi. Possiamo dire che ciò che Gesù lascia in eredità è la sua vita e il suo esempio, la sua pratica di umanità che ci insegna a vivere insegnandoci ad amare. Gesù risuscita e si fa presente nell'amore che i discepoli vivono nella storia. La presenza del Risorto avverrà così nello spazio relazionale intracomunitario: “gli uni gli altri”. Scrive Ignazio di Antiochia: “Nella vostra armonia e nel vostro amore concorde si canta Gesù Cristo”. Cristo si fa presente e vivente nell’amore che abita le relazioni nella comunità cristiana. E lì si canta Gesù Cristo, ovvero, si celebra esistenzialmente la sua presenza di Risorto. Ciò che fa la qualità cristiana di una vita è l'amore, è l'umanissima realtà dell'amarsi gli uni gli altri. L'unica cosa necessaria. Come quello di amarsi è l'unico comando, come diceva Gerolamo, che Gesù ci poteva lasciare e sarebbe bastato.
Mentre ci lascia questo insegnamento sull’essenzialità della vita cristiana, Gesù ci insegna che per amare occorre aprirsi agli altri e accoglierli senza giudicarli, anzi accettando di costruire insieme. Amare è sempre volontà di creare insieme. L'amore implica pertanto la rinuncia alla volontà di potenza, che ha un carattere marcatamente individuale. Il carattere comunitario e comunionale dell'amore è segno del suo essere abitato dalla potenza della resurrezione. Esso ci salva facendoci passare dall’io al noi, al con-gli-altri. Certo, amare, come ci mostra Gesù nel capitolo tredicesimo di Giovanni, è spogliarsi fino a non trattenere nulla per sé. Gesù si spoglia delle sue vesti, le depone e si mette ai piedi dei suoi fratelli per servirli. Amare è darsi fino a non tenere nulla per sé: amando ci si spoglia di tutto, come Cristo che "spogliò se stesso" (Fil 2,7). La morte ci priva di tutto; amando, noi stessi ci priviamo di tutto ma con un atto di morte vitale che dà senso alla nostra vita mortale. E che scardina la chiusura e l’isolamento in cui consiste la morte. Lì vediamo la vittoria dell'amore sulla morte, l'amore come prassi di resurrezione.