La chiamata dello sguardo
17 gennaio 2021
Gv 1,35-42
II Domenica nell’anno
di Luciano Manicardi
In quel tempo, 35Giovanni stava con due dei suoi discepoli 36e, fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: «Ecco l'agnello di Dio!». 37E i suoi due discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù. 38Gesù allora si voltò e, osservando che essi lo seguivano, disse loro: «Che cosa cercate?». Gli risposero: «Rabbì - che, tradotto, significa Maestro -, dove dimori?». 39Disse loro: «Venite e vedrete». Andarono dunque e videro dove egli dimorava e quel giorno rimasero con lui; erano circa le quattro del pomeriggio.
40Uno dei due che avevano udito le parole di Giovanni e lo avevano seguito, era Andrea, fratello di Simon Pietro. 41Egli incontrò per primo suo fratello Simone e gli disse: «Abbiamo trovato il Messia» - che si traduce Cristo - 42e lo condusse da Gesù. Fissando lo sguardo su di lui, Gesù disse: «Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; sarai chiamato Cefa» - che significa Pietro.
Il brano evangelico di questa domenica, tratto dal IV vangelo, ci situa nel terzo giorno della settimana inaugurale del ministero di Gesù, settimana che culminerà nella manifestazione della gloria di Gesù a Cana davanti ai suoi discepoli che “credettero in lui” (Gv 2,11). Il testo presenta la versione giovannea della chiamata dei primi discepoli narrata dalla tradizione sinottica (Mt 4,18-22; Mc 1,16-20; cf. Lc 5,1-11). La differenza è notevole. Se nello schema sinottico 1) Gesù incontra un uomo intento al suo lavoro, 2) lo chiama a seguirlo e 3) questi obbedisce abbandonando tutto, Giovanni presenta uno schema in cui è fondamentale la mediazione di un testimone che confessa la fede in Gesù e conduce altri all’incontro con lui: è così per Giovanni Battista nei confronti di due suoi discepoli (1,35-39), per Andrea nei confronti di Simon Pietro (1,40-41), per Filippo nei confronti di Natanaele (1,45ss.). A noi interessa Giovanni Battista che, dopo una testimonianza negativa su di sé (“Io non sono il Cristo”: 1,19-28) e una positiva su Gesù (“Ecco l’Agnello di Dio”: 1,29-34), rivela davanti a due suoi discepoli l’identità di colui di cui egli è stato il precursore e li conduce a farsi discepoli di Gesù. Colui era stato inviato da Dio come testimone del Verbo “perché tutti credessero per mezzo di lui” (1,7) adempie così il suo mandato “cedendo” a Gesù i suoi discepoli, portandoli ad aderire a lui.
Il brano evangelico si apre con Giovanni che “fissa lo sguardo” (1,36) su Gesù e dice: “Ecco l’Agnello di Dio” e si chiude con Gesù che “fissando lo sguardo” (1,42) su Simon Pietro gli dice: “Tu sei Simone, il figlio di Giovanni, sarai chiamato Cefa – che significa Pietro”. Si tratta, in entrambi i casi, di uno sguardo intenso, un vedere in profondità, un discernere l’identità di una persona. La vocazione non è solo una chiamata, ma anche uno sguardo. Anche lo sguardo, come la voce, crea un ponte, è comunicazione, è passaggio. Vi è una dolce violenza nello sguardo di Gesù: la dolce violenza dell’amore. Quella a cui si sottrarrà l’uomo ricco quando Gesù, fissato lo sguardo su di lui lo amò (Mc 10,21); quella che indurrà Pietro al pianto, quando Gesù, voltatosi, fissò lo sguardo su di lui che aveva appena negato per la terza volta di conoscerlo (Lc 22,61); quella che esprimerà l’esigenza di un affidamento che assomiglia a un perdersi quando, fissato il suo sguardo sui suoi discepoli e rispondendo alla loro domanda su chi può salvarsi, egli dirà: “impossibile agli uomini, ma non a Dio” (Mc 10,27). Lo sguardo di Gesù non si limita a constatare, ma riplasma le vite facendo di pescatori di pesci dei pescatori di uomini (Mc 1,17): potenza dello sguardo che ama e del lasciarsi vedere e amare. Potenza dell’amore che si manifesta nello sguardo.
Ma anche Gesù, suggerisce il nostro passo evangelico, per dispiegare la potenza del suo sguardo sulla vita di Pietro e dei discepoli, ha avuto bisogno di essere lui stesso visto, conosciuto, amato. Ha avuto bisogno di uno sguardo, e non solo dello sguardo di un padre o di una madre, ma di un altro, di un maestro, di un uomo di Dio che lo riconoscesse: “Ecco l’agnello di Dio”. È lo sguardo di cui si è incaricato Giovanni. In quel passaggio che è lo sguardo avviene una trasmissione, un’eredità. Per Giovanni, questo passaggio diviene un passare il testimone a colui di fronte al quale egli diminuisce, diviene un dare testimonianza a colui che viene dopo di lui e che va seguito da coloro che erano i suoi discepoli. Lo sguardo di Giovanni non carpisce, non possiede, non invidia, ma cede il passo a colui che da lui viene visto; indica ai suoi discepoli colui che è da seguire e li indirizza alla sequela del Messia; ricorda a se stesso che il proprio compito è ormai compiuto: “Lui deve crescere, io invece diminuire” (Gv 3,30). Lo sguardo di Giovanni trova in Gesù il suo punto di approdo, il suo orizzonte ultimo, lo sguardo di Gesù su Pietro e sui discepoli crea una novità, fa iniziare una storia, apre l’orizzonte.
Giovanni Battista conduce i suoi discepoli all’incontro personale con il Cristo: egli compie un’opera di mediazione. La ricerca della volontà di Dio abbisogna di mediazioni umane e soprattutto di mediatori umani: di maestri, cioè persone capaci di fare ed essere segno, capaci di orientare il cammino di una persona, e di padri, cioè persone capaci di generare alla vita secondo lo Spirito. Si potrebbe leggere il gesto di Giovanni Battista come esercizio di paternità spirituale nei confronti dei suoi due discepoli. La fede non si trasmette per via intellettuale, ma all’interno di relazioni umane. Il padre spirituale è persona umile che non se-duce, non attrae a sé, non tiene i discepoli stretti a sé, ma li e-duca, li conduce all’adesione teologale, si fa maestro di libertà guidandoli alla relazione personale con il Signore. È uomo conscio dell’importanza dei limiti, che sa porli a colui che guida e rispettarli egli stesso. Solo chi vive non per se stesso, ma per il Signore, potrà aiutare altri a vivere per il Signore e a liberarsi dalla volontà propria.
“Ecco l’Agnello di Dio”. All’udire questa rivelazione, i discepoli di Giovanni iniziarono a seguire Gesù immettendosi nella dinamica del discepolato. La vocazione qui non risponde a un comando imperioso (cf. Mc 1,17; 2,14), ma è accoglienza di una rivelazione comunicata da un testimone. La forza, la credibilità e la radicalità del testimone suscita vocazioni.
Gesù allora, vedendo i due che si erano messi a seguirlo, chiede loro: “Che cercate?” (1,38). Sono le prime parole di Gesù nel IV vangelo. Parole che, come si rivolgono ai due per Gesù ancora anonimi seguaci, raggiungono anche ogni lettore del vangelo che giunge a questo punto. La domanda non è banale: è suggestione a verificare che cosa muove, in profondità, la propria ricerca. Vi è infatti una ricerca – e il vangelo di Giovanni lo denuncia – che, pur rivolgendosi verso Gesù, in verità è insincera e perversa (Gv 6,24.26; 7,11; 18,4-7). Alla domanda di Gesù i due discepoli rispondono, a loro volta, con una domanda: “Dove dimori?” (1,38). A un primo livello questa domanda significa certamente “Dove abiti?”, ma a un livello più profondo, simbolico-teologico, significa molto di più, come lascia intendere l’uso del verbo ménein, “rimanere, dimorare”, così caro al IV vangelo. I discepoli chiedono a Gesù: Dov’è il tuo dove? Dove trovi saldezza e stabilità? Gesù rimane nel Padre, nella sua parola, nel suo amore. E i discepoli sono chiamati a percorrere lo stesso cammino: rimanere nella parola e nell’amore del Figlio per dimorare con Dio e in Dio. La ricerca cristiana si indirizza verso una vita interiore, una dimensione profonda di comunione con il Padre e il Figlio nello Spirito. Il “dove” di Gesù è il Padre: nella sequela esso diviene anche il “dove” del discepolo. La fede diviene così esperienza dell’inabitazione del Signore nel credente.
Il IV vangelo approfondisce il senso della vocazione: questa non consiste soltanto nel seguire, ma anche nel rimanere. Il rimanere designa la maturità del rapporto, della sequela, del discepolato. E a questa maturità si accede mediante la fede, com’è discretamente indicato dalla frase: “Venite e vedrete” (1,39). Nel IV vangelo infatti, l’espressione “venire a Gesù” indica normalmente la fede in Gesù (Gv 3,26; 6,37.44.45.65; ecc., mentre il non venire a lui, designa la non-fede: Gv 5,40) e il vedere indica la visione che sfocia nella fede (Gv 2,11; 20,8: “Vide e credette”).
A questo punto l’evangelista svela il nome di uno dei due discepoli: Andrea (1,40). Egli non solo confessa la fede in Gesù quale Messia (1,41) ma conduce a lui Simon Pietro, suo fratello (1,42) che da Gesù riceve la vocazione a diventare “roccia” (questo significa “Cefa”), in mezzo ai suoi fratelli. Chi è l’altro discepolo che era insieme a Andrea? Possiamo ipotizzare che sia “il discepolo amato”. Egli è colui che, presente alla croce di Gesù, vedendo Gesù morire come Agnello a cui non viene spezzato alcun osso (Gv 19,33.36) “testimonia perché voi crediate” (Gv 19,35), proprio come Giovanni Battista testimonia di Gesù, dopo averlo visto e indicato come Agnello di Dio perché tutti credano (Gv 1,34.36.37). Il parallelismo tra Gv 1,38 (“Voltatosi Gesù e vedendo essi che lo seguivano dice loro …”) e Gv 21,20-21 (“Voltatosi, Pietro vede il discepolo che Gesù amava che seguiva … e dice a Gesù”) mostra che accanto a Pietro, agli inizi della sequela e dopo la Pasqua, c’è – con ogni probabilità – il discepolo amato che ha seguito l’Agnello con fedeltà fin dagli inizi. E Pietro, mentre viene costituito pastore delle pecore del Signore e invitato nuovamente a seguire Gesù come pecora egli stesso (cf. Gv 10,4), riceve la rivelazione che la sequela dell’Agnello e il ministero pastorale trovano il loro esito nel dare la vita per le pecore, nel glorificare Dio con il martirio. Questa sarà la testimonianza di Pietro: nella morte di croce l’apostolo si troverà là dove è stato il suo Signore: “Se uno mi vuol servire mi segua e dove sono io, là sarà anche il mio servo” (Gv 12,26).