Anche l’insuccesso si fa preghiera

5 luglio 2020

Mt 11,25-30
XIV Domenica nell’anno
di Luciano Manicardi

25In quel tempo Gesù disse: «Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. 26Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza. 27Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo.28Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. 29Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita30Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero».


Il testo evangelico odierno inizia con una notazione temporale (“In quel tempo”) che lega ciò che Gesù sta per dire agli eventi appena narrati, ovvero, la domanda del Battista sulla messianicità di Gesù (Mt 11,3ss.) e il fallimento, o almeno lo scarso successo, della sua predicazione e missione (Mt 11,20-24). Gesù ha appena rimproverato le città di Corazin, Betsaida e Cafarnao perché, pur avendo assistito ai gesti di potenza da lui compiuti, non si sono convertite. Si comprende così il senso del verbo “rispondere” che introduce il ringraziamento di Gesù. Dice letteralmente il testo: “In quel tempo, rispondendo, Gesù disse”. Questa risposta reagisce a degli eventi, non a una domanda esplicita che, appunto, nel testo non c’è. Gesù risponde allo scarso interesse suscitato dalla sua persona, dalla sua predicazione, dalle sue opere. E vi risponde con la preghiera, addirittura una preghiera di ringraziamento (“Ti benedico, Padre”). Gesù integra nella preghiera l’insuccesso, mette tutto davanti al Padre e conferma il suo “sì”, il suo “amen”, la sua decisione irrevocabile di adesione a Lui. Il suo “sì” al Padre non è condizionato dal successo della sua missione, ma è un’adesione radicale che anche situazioni sfavorevoli o contraddittorie non intaccano. Il “no” che la sua persona e il suo ministero hanno ricevuto, confermano, nella sua preghiera il suo “sì” al Padre. Sempre la preghiera è una risposta che reagisce alla parola di Dio così come a eventi della vita che non possono lasciare indifferente il credente. Con la preghiera anche il fallimento, o ciò che noi giudichiamo tale (il fallimento pastorale, l’assenza di frutti del ministero, la sterilità della predicazione, il rifiuto o il disinteresse degli altri…) diviene non causa di scoraggiamento o di abbandono, ma momento di paradossale conferma della sequela del Signore.

In questo passo, Matteo presenta Gesù come figura di rivelazione e di iniziazione alla rivelazione: rivelazione di Dio e iniziazione alla rivelazione per i discepoli. Mentre Gesù, con la sua umiltà, rivela l’umiltà di Dio, Gesù si propone anche come fonte di umiltà per i suoi discepoli. Questo intento iniziatico-rivelativo è costruito da Matteo con una struttura tripartita modellata sul testo sapienziale di Sir 51. Se in Matteo troviamo un inno di ringraziamento (vv. 25-26), un monologo sul rapporto tra Gesù e il Padre (v. 27) e l’invito a mettersi alla scuola di Gesù e ad assumere il suo giogo (vv. 28-30), in Sir 51 abbiamo un inno di ringraziamento (vv. 1-12), un monologo sulla ricerca della sapienza (vv. 13-22), un invito a mettersi alla scuola della sapienza e a prendere su di sé il suo giogo (vv. 23-30). Non è un caso che in Mt 11,19 si parli delle opere della Sapienza riferendosi alle opere del Messia (cf. Mt 11,2-6): Cristo è la Sapienza di Dio.

La preghiera di ringraziamento di Gesù è anche, contemporaneamente, una confessione di fede: il verbo greco utilizzato da Matteo ha entrambi i significati. Gesù sta manifestando la sua fede nel Padre. Solo un’operazione di rielaborazione interiore nella fede degli eventi vissuti può portare a fare di un insuccesso il fondamento di un rendimento di grazie e di una conferma della propria missione. E la fede, come sempre, si esprime e trova la sua eloquenza nella preghiera: Gesù è uomo di preghiera perché uomo di fede.

Questa preghiera svela anche il punto di vista da cui Gesù guarda gli eventi. La preghiera di Gesù ringrazia il Padre non tanto per l’azione di nascondimento nei confronti di alcuni, quanto per l’azione di rivelazione nei confronti di altri. L’accento non è punitivo nei confronti di chi non ha accolto la rivelazione, quanto di ringraziamento a Dio che rivela ai piccoli i suoi disegni. In particolare, rivela l’uomo Gesù come Messia. L’adesione di alcuni, definiti con un termine che può indicare anche gli infanti, i “senza parola”, dunque senza istruzione, è l’angolatura da cui Gesù guarda gli eventi e li coglie nella loro dimensione positiva, che svela cioè il volere di Dio, ciò in cui Dio mette il suo compiacimento. Questi semplici, credendo alla parola e alle opere compiute da Gesù, hanno colto in lui la rivelazione del Padre, e questa azione diviene svelamento e giudizio del cuore di altri, la cui sapienza intellettuale e dotta si rivela inconsistente davanti alla semplicità dei piccoli. È come se nel nostro testo confluissero due tradizioni: quella sapienziale che afferma che i piccoli sono destinatari della rivelazione divina (“Grande è la misericordia di Dio: egli rivela i suoi segreti agli umili”: Sir 3,20 secondo il testo ebraico) e quella profetica che polemizza con la sapienza intellettuale (“Perirà la sapienza dei sapienti e si eclisserà l’intelligenza degli intellettuali”: Is 29,14). Il “sì” di Gesù al Padre è dunque anche il riconoscimento della modalità con cui Dio agisce nella storia, scegliendo il minore, il più piccolo, chi agli occhi umani è disprezzabile e non conta nulla. È dunque un “sì” che sgorga dalla familiarità di Gesù con il cuore di Dio, un cuore che predilige il minore, il piccolo, il dimenticato, da Abele in poi. Anche Abele, che nel testo biblico non pronuncia parola (Gen 4,1-16), è un “infante”, un senza parola. E ciò che è stato rivelato, ovvero “queste cose” (Mt 11,25), è il senso profondo delle “opere del Messia” (Mt 11,2), quel senso che è rimasto nascosto ai dotti e sottili ragionatori di questo mondo (cf. 1Cor 1,20).

Il v. 27 afferma che il Dio che si rivela ai piccoli è il Dio che Gesù stesso rivela. In quanto “mite e umile di cuore”, Gesù, a cui Dio ha consegnato tutto, rivela Dio. Questo il mistero, il segreto, la sapienza nascosta che abita nel Padre e che Gesù svela con la sua stessa mitezza e umiltà: Dio si sottrae a chi si appoggia sulle proprie forze e conta sulla propria intelligenza e sulle proprie doti e capacità e si manifesta invece agli umili, ai senza pretese, ai piccoli.

Le parole di Gesù nei vv. 28-29 abbozzano un itinerario di sequela del discepolo. Vi è anzitutto la chiamata: “Venite a me”; quindi la necessaria rinuncia alla volontà propria per obbedire alla volontà del Signore (“prendete il mio giogo”). Per “volontà propria” non si intende la libera determinazione dell’uomo, ma la sua volontà egocentrica, “carnale”. Quindi c’è l’attitudine del discepolo, l’obbedienza del discepolo al suo maestro e Signore (“Imparate da me”) e infine il riposo, la pienezza di vita trovata nel Signore (“troverete riposo per le vostre vite”). Andare a Cristo, imparare da lui e seguirlo significa anzitutto apprendere l’arte della mitezza, che è l’arte di vincere la violenza e l’aggressività con la parola dialogica. Potremmo dire che la beatitudine dei miti è la beatitudine di chi si sottomette alla fatica del dialogo. Il NT propone la beatitudine dei miti (Mt 5,5) su base cristologica: Cristo è il mite. Egli dice: “Imparate da me, che sono mite e umile di cuore” (Mt 11,29). Mitezza fatta persona Cristo lo è in quanto parola fatta carne, in quanto parola che Dio interpone fra sé e gli umani non per imporre, ma per invitare, per suscitare uno scambio, per far entrare liberamente nella relazione con Lui. Accogliere la rivelazione del Cristo mite è entrare nel dialogo che Dio ha apprestato come via per la relazione autentica. Autentica, cioè non violenta, non manipolatoria, non impositiva, non mistificatrice.

Paolo VI aveva ben compreso che la mitezza è intrinseca al dialogo, annoverandola tra i suoi “caratteri” propri: “La ‘mitezza’, quella che Cristo ci propose d’imparare da lui stesso: ‘Imparate da me che sono mansueto e umile di cuore’ (Mt 11,29); il dialogo non è orgoglioso, non è pungente, non è offensivo. La sua autorità è intrinseca per la verità che espone, per la carità che diffonde, per l’esempio che propone; non è comando, non è imposizione. È pacifico; evita i modi violenti; è paziente, è generoso. La ‘fiducia’, tanto nella virtù della parola propria, quanto nell’attitudine ad accoglierla da parte dell’interlocutore: promuove la confidenza e l’amicizia; intreccia gli spiriti in una mutua adesione ad un Bene che esclude ogni scopo egoistico” (Ecclesiam suam 83).

Il “giogo” di Gesù non designa poi dettami religiosi o comandi da eseguire, ma una relazione, un legame, onorando così l’etimologia della parola che designa l’azione di “riunire”, “mettere insieme”. Il giogo di Gesù leggero e soave è in continuità con il comando biblico di amare e con l’idea che colui che ama, fa con gioia la volontà dell’amato. Gesù promette riposo a chi assume il suo giogo: un’esistenza credente che sia perennemente stressata dagli impegni pastorali e si configuri come frenetica attività che non conosce sosta e riposo, dimentica quell’affidamento a Cristo che è fonte di riposo nella fatica e di consolazione nelle contraddizioni. E che plasma il volto del credente non a immagine e somiglianza di manager iperattivi e sempre nervosi, ma del Cristo mite e umile, paziente e benevolo.

Al tempo stesso, un giogo resta un giogo e nulla toglie la fatica di portarlo. Amare è un lavoro impegnativo e la sequela Christi comporta sforzo e fatica. Di fronte alla tentazione diffusa di eliminare dal vivere ciò che è faticoso e comporta sofferenza in nome dell’idolatria del “tutto, subito e senza sforzo”, occorre ribadire che non si danno grandi realizzazioni umane e spirituali senza fatica, dedizione, sacrificio. Né possiamo dimenticare che il giogo dell’obbedienza portato da Gesù durante tutta la sua vita è divenuto, alla fine della sua vita, un portare la croce.