Sapore e luce di fraternità

9 febbraio 2020

Mt 5,13-16
V Domenica del Tempo Ordinario
di Luciano Manicardi

In quel tempo 1Vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. 2Si mise a parlare e insegnava loro dicendo: "13Voi siete il sale della terra; ma se il sale perde il sapore, con che cosa lo si renderà salato? A null'altro serve che ad essere gettato via e calpestato dalla gente.
14Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città che sta sopra un monte, 15né si accende una lampada per metterla sotto il moggio, ma sul candelabro, e così fa luce a tutti quelli che sono nella casa. 16Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli".


Dopo aver pronunciato le beatitudini, rivolte ai discepoli e concluse dall’appello al “voi” dei discepoli perseguitati (Mt 5,11-12), ora Gesù si rivolge sempre a loro, ai discepoli, con un discorso diretto qualificandoli quali “sale della terra” e “luce del mondo”. E questi appellativi non hanno nulla di trionfalistico, né tanto meno possono ingenerare nei discepoli stessi presunzione od orgoglio, ma sono richiamo a una responsabilità che può essere disattesa. I detti sul sale e sulla luce riguardano il rapporto dei discepoli con il mondo, la loro responsabilità nei confronti degli “uomini” (Mt 5,13.16). Dunque, dietro il riferimento alla “terra”, cioè all’umanità che vive sulla terra, e al “mondo”, cioè agli abitanti del mondo, vi è implicitamente l’affermazione di ciò che l’umanità ha il diritto di aspettarsi dai credenti. Vi è un compito che solo i discepoli di Gesù possono adempiere e a questo compito non possono sottrarsi, pena il loro divenire insignificanti, il loro perdere sapore, come sale divenuto insipido, e il loro perdere forza irraggiante, come luce che non illumina più. Dunque, pena il loro tradire se stessi e la loro vocazione. Le parole di Gesù possono pertanto essere applicate alla chiesa nella sua attività missionaria, nei suoi rapporti ad extra e anche nel suo subire persecuzioni. Riguardano la modalità della presenza dei cristiani nel mondo.

Innanzitutto è importante sottolineare che le parole evangeliche sui discepoli “sale” e “luce” sono poste in bocca a Gesù e da lui rivolte a loro. È Gesù che dice: “Voi siete la luce”, non sono i discepoli che dicono: “Noi siamo la luce”. Questo sarebbe arroganza e tradimento della qualità della luce che è Cristo (Mt 4,16; Lc 2,32; Gv 8,12) e che i discepoli possono soltanto riflettere vivendo lo spirito delle beatitudini. Le parole di Gesù non affermano dunque una situazione di fatto, ma immettono il discepolo nel lavoro dell’ascolto e della fede in quanto vanno recepite, accolte e fatte diventare prassi. Solo questa condizione mantiene nell’umiltà il credente e gli consente di partecipare alla sapienza del Vangelo e di testimoniarla, così come di accogliere la luce di Cristo e di diffonderla. Questo significa che l’essere luce e sale in rapporto agli uomini non è un dato acquisito di diritto, una volta per sempre, ma un evento che accade ogni qualvolta il credente ascolta la parola di Gesù e del Vangelo e la mette in pratica, in attitudine di servizio nei confronti degli uomini. Nessun integralismo o fondamentalismo può nascere da questa parola del Signore se la si mantiene e la si osserva come parola che viene da lui. Imporre la propria luce, la propria verità agli altri, sarebbe lo stravolgimento della vocazione che il Signore affida ai suoi. Del resto, affidare il compito di essere sale della terra, non significa che il mondo debba diventare una saliera. E analogamente, essere luce del mondo non significa far scomparire la tenebra e le zone d’ombra: una luce abbagliante non illumina, ma produce cecità. Nessuna interpretazione totalitaria di queste affermazioni: il contributo messianico che i credenti possono dare all’umanità, per quanto fondamentale, è limitato e parziale. Ogni sua declinazione in senso totalitario e assoluto è un tradimento della logica evangelica.

Al “voi siete il sale della terra” (Mt 5,13) e “voi siete la luce del mondo” (Mt 5,14), che riguardano la relazione dei cristiani e della chiesa ad extra, e che si trovano nei primi capitoli del Vangelo, corrisponde, per i rapporti ad intra, cioè intra-ecclesiali, il “voi siete tutti fratelli” (Mt 23,8) che Gesù, ormai verso la fine del Vangelo, rivolge ancora ai discepoli. Ovvero, ciò che la chiesa diffonde nel mondo è, semplicemente, ciò che essa è e vive al proprio interno: la sua luce è irradiazione di fraternità. Questo richiamo tra i due passi evangelici suggerisce che la comunità cristiana può essere luce del mondo solo se vive la fraternità al proprio interno, cioè se vive la fattiva e faticosa carità: “infatti chi dice di essere nella luce e odia suo fratello è ancora nelle tenebre. Chi ama suo fratello, rimane nella luce” (1Gv 2,9-10). In questo senso va anche una glossa bizantina al nostro testo evangelico che recita: “Non dice: Voi siete luci, ma luce, essendo tutti insieme il corpo del Messia che è la luce del mondo”. La chiesa nel suo insieme è chiamata a essere luce: è la chiesa come comunione fraterna che risplende dell’amore di Cristo che illumina ogni essere umano e che offre a ciascuno la possibilità di entrare in quell’alleanza che è redenzione della solitudine.

Il rimando al testo di Mt 23 è poi istruttivo anche perché mostra il confine sottile tra autenticità della testimonianza e ipocrisia. Dice Mt 5,16: “Risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli”. E Mt 23,5: “Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dagli uomini”. In questo capitolo Matteo sta rivolgendo le parole di Gesù, che parlano di scribi e farisei, ai cristiani che nelle loro comunità conoscono fenomeni di clericalismo, di protagonismo, di vanità, di ambizione e di ricerca di potere. Ambire i primi posti nei banchetti e nei luoghi di culto, esibire le proprie vesti e i paramenti per attirare l’attenzione su di sé, amare l’essere riveriti e onorati con titoli magniloquenti, tutto questo è un operare avendo come fine se stessi e questo non irradia alcuna luce, anzi, isterilisce la relazione chiudendola invece di aprirla. Gesù, nel nostro testo evangelico, non chiede ai discepoli di fare le loro opere davanti agli uomini per essere visti da loro, ma chiede che risplenda la loro luce davanti agli uomini, cosicché chi vede l’operare dei cristiani sia condotto all’adesione teologale, a dare gloria a Dio Padre, non ad applaudire i credenti.

Le due immagini, il sale e la luce, sono accomunate dalla possibilità del fallimento. Questo è l’accento del nostro testo evangelico: il sale può divenire insipido, tradendo la sua funzione; la lampada può non illuminare, smentendo il suo senso. Ora, il sale è elemento che presenta molte funzionalità e significati. Qui però certamente esso è simbolo di sapienza. E il divenire insipido del sale è espresso in greco con un verbo (moraíno) che altrove designa il divenire stolti (Rm 1,22). L’aggettivo moròs, della stessa radice, indica le vergini stolte (Mt 25,2.3.8), l’uomo insensato che costruisce la casa sulla sabbia (Mt 7,26), gli scribi e i farisei “insensati e ciechi” (Mt 23,17), l’accusa (“stolto”: Mt 5,22) con cui si insulta una persona. La sapienza, parola e realtà oggi marginalizzata, indica qualcosa che va ben oltre l’informazione, oggi imperversante, anzi, che va anche oltre e più in profondità rispetto alla conoscenza. Si tratta di un sapere che aiuta a vivere, che è amico della vita. Che non si riduce a una dimensione intellettuale, ma che integra i sensi e le emozioni come fattori di una intelligenza integrale di sé, degli altri e del reale. Ed è una sapienza che il cristiano vede illuminata e guidata dallo Spirito che ha animato il vivere di Gesù stesso. Del resto, possiamo vedere come in Matteo Gesù sia la sapienza di Dio personificata (Mt 11,19).

Quanto all’immagine della luce, essa è applicata nell’Antico Testamento a Dio (Sal 27,1) e alla Torah (Sal 119,105) e dunque al popolo d’Israele che, istruito nella Torah e guidato dal volere di Dio, diviene “luce delle genti” (Is 42,6; 49,6). Nel Nuovo Testamento è riferita al Messia Gesù e si applica anche ai suoi discepoli in quanto partecipi della sua vita. Non essi, va ripetuto, sono la fonte della luce. Essi la possono riflettere a misura della loro fede e del loro amore per Gesù. Così si comprende come anche questa loro responsabilità possa fallire. Gesù esprime questa possibilità con l’immagine della lanterna che, se appesa al lucerniere, ovvero all’asticella che situata al centro della casa, illumina tutto l’interno della casa, ma che può anche essere nascosta e spenta dal moggio.

Sale che diventa insipido, lucerna che non illumina, città situata su un monte e che resta nascosta e non visibile: tutte immagini che convergono nel mettere severamente in guardia i discepoli e i cristiani tutti dalla possibilità di fallire la propria responsabilità di fede. Allora diverrebbero insignificanti per gli uomini e questo sarebbe il peggiore giudizio in cui potrebbero incorrere.

Il versetto finale, ponendo in relazione la luce dei discepoli che deve risplendere davanti agli uomini, e le loro opere che, se viste, conducono gli uomini stessi a dar gloria a Dio, stabilisce il rapporto equilibrato tra fede ed etica. L’essenziale è l’accoglienza della luce di Cristo che, grazie alla fede, può prendere dimora nel credente e che trova nelle opere “belle” (kalà: Mt 5,16) un linguaggio comprensibile agli uomini, un linguaggio simbolico, sacramentale. Le opere belle diventano segno che rinvia al Padre che è nei cieli. La sacramentalità della Chiesa si manifesta quando il suo agire e operare si riverbera sugli altri e li porta a riconoscere la fonte della luce, il Dio “padre delle luci” (Gc 1,17). La chiesa esprime tale sacramentalità quando la luce che essa ha ricevuto e accolto come dono dall’alto, la riflette e la spande sul mondo con la sua testimonianza, non tenendola gelosamente per sé, perché questo significherebbe spegnerla.