Gesù, l'uomo delle beatitudini
2 febbraio 2020
Mt 5,1-12a
IV Domenica del Tempo Ordinario
di Luciano Manicardi
In quel tempo 1Vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. 2Si mise a parlare e insegnava loro dicendo:
3«Beati i poveri in spirito,
perché di essi è il regno dei cieli.
4Beati quelli che sono nel pianto,
perché saranno consolati.
5Beati i miti,
perché avranno in eredità la terra.
6Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia,
perché saranno saziati.
7Beati i misericordiosi,
perché troveranno misericordia.
8Beati i puri di cuore,
perché vedranno Dio.
9Beati gli operatori di pace,
perché saranno chiamati figli di Dio.
10Beati i perseguitati per la giustizia,
perché di essi è il regno dei cieli.
11Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia.
12Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli.
La ricchezza inesauribile della pagina evangelica delle beatitudini ci consente solo alcune annotazioni che si limitano a sfiorare, e solo parzialmente, la profondità e l’ampiezza del messaggio. Le beatitudini nascono dallo sguardo di Gesù sulle folle, e si presentano come discorso magisteriale, come appare dalla posizione seduta di Gesù, propria del maestro che insegna. In effetti, le beatitudini sono un insegnamento: “Gesù si mise a parlare e insegnava loro dicendo: Beati i poveri in spirito” (Mt 5,2-3). L’insegnamento è trasmissione di vita e nasce da un’esperienza. Gesù comunica ciò che ha vissuto, dove “vissuto” significa non semplicemente accaduto, ma elaborato, rivissuto interiormente, pensato e posto davanti a Dio. Il vissuto non è veramente tale se non è rivissuto nel cuore e nella mente. Per dire che sono “beati” i poveri o i miti o i perseguitati e per aggiungere la motivazione, “perché”, occorre avere vissuto non solo esteriormente, ma anche interiormente. L’uomo non vive di fatti ma di storia, non vive di cronaca ma di narrazione. Dire “beati” e aggiungere “perché” implica un lavoro interiore e spirituale che ha forgiato un sapere e una sapienza. Ha forgiato un uomo libero, che sa fare qualcosa di positivo anche di situazioni di pianto, di dolore, di fatica.
Cerchiamo di immaginare il lavoro interiore che sottostà alle beatitudini e chiediamoci: chi può pronunciare parole così potenti come le beatitudini? Queste parole rivelano la forza e l’autorevolezza di chi le pronuncia e diventano una sorta di identikit spirituale di Gesù stesso. Lui è l’uomo delle beatitudini. Queste parole aprono uno squarcio sull’esperienza interiore di Gesù. Gesù, infatti, non dice che basta piangere o essere perseguitati per essere beati, ma suggerisce che occorre fare qualcosa della persecuzione che si subisce o della situazione di afflizione che si vive perché diventi motivo di beatitudine. Gesù non dice che basta un gesto di misericordia o di mitezza per essere beati, ma che occorre perseverare ostinatamente nella misericordia e nella mitezza fino a farle divenire tratti costitutivi della persona. Gesù infatti proclama beato chi è mite, chi è misericordioso. Questo significa che dietro le parole c’è l’esperienza di chi ha perseverato nell’essere misericordioso anche quando la misericordia si rivelava sterile e il perdono uno scialo di amore. C’è l’esperienza di chi è giunto a comprendere che queste realtà bastano a se stesse, hanno valore in sé, indipendentemente da ciò che mutano negli altri. Purezza di cuore e povertà in spirito, mitezza e misericordia sono fonti di beatitudine perché bastano a se stesse e trasformano chi le vive.
Le parole delle beatitudini può dirle solo chi questo lavoro profondo l’ha fatto. Per questo forse le beatitudini spesso ci paiono così belle e così inattingibili, così alte e così estranee. Perché spesso siamo estranei al lavoro che le ha fatte nascere. Le beatitudini sono il frutto della purificazione dello sguardo del cuore che sa vedere anche situazioni di vita assolutamente penose e dolorose non più soltanto come cosa da fuggire o da temere, ma come occasione di umanizzazione e di vita sensata ed evangelica. Esse nascono dal silenzio e dalla sofferenza, dalla lotta interiore e dalla solitudine. Sono parole la cui potenza è nascosta nella loro verità inesauribile: verità provata da Gesù stesso che ha vissuto in sé ciò che ora può proclamare come autorevole e vero per ogni uomo. Le beatitudini sono una sintesi di autorevolezza umana e di conoscenza di Dio, di conoscenza del cuore umano, ovvero del proprio cuore, e del cuore di Dio. Per questo Gesù può esprimersi con tanta autorevolezza anche su Dio e sul suo Regno promettendo la consolazione di Dio, la sua misericordia, la sua intimità, la sua comunione a chi vive in tale pienezza e profondità queste situazioni.
Dunque, le beatitudini sono un insegnamento. Ma insegnare è anche indicare una via da percorrere. Non a caso vi è chi, risalendo al sostrato semitico del greco makarios, “beato”, traduce “in cammino”, “avanti”. E così le beatitudini appaiono invito e incoraggiamento: voi poveri, voi misericordiosi, voi afflitti, voi perseguitati, voi miti, non scoraggiatevi, ma camminate, proseguite il cammino, andate avanti, tenete fisso lo sguardo alla meta, lasciatevi attirare da ciò che vi sta davanti e non fatevi frenare da ciò che sta dietro. Questo cammino conduce alla beatitudine, alla felicità, perché è il cammino verso l’essenziale. Fr. Roger di Taizé ha ben espresso il carattere proprio di questo cammino delle beatitudini: “Ciò che rende felice un’esistenza è avanzare verso la semplicità: la semplicità del nostro cuore e quella della nostra vita. Perché una vita sia bella, non è indispensabile avere capacità straordinarie o grandi possibilità: l’umile dono della propria persona rende felici”.
Insegnare è poi anche promettere. È mettere avanti un futuro, è anticipare ciò che potrà essere, o meglio, offrire le condizioni ora per ciò che potrà essere vero domani. Le beatitudini, come promessa di felicità, sono invito alla bellezza, a lavorare la propria vita fino a farne un capolavoro. Ma ancor più che di felicità, l’uomo ha bisogno di senso, e le beatitudini, come promessa, attestano che si può trovare senso anche nell’assurdo del dolore, che il mondo può essere vissuto anche nell’invivibile della persecuzione, della violenza subita, di situazioni di guerra e non di pace. Rivelazioni del vissuto di Gesù, le beatitudini diventano rivelazioni della vita possibile a noi se troviamo radici nell’umanità di Gesù. Allora capiamo che anche persecuzione e afflizione, assenza di pace e mancanza di giustizia, sono situazioni che possono aprire alla beatitudine insegnando a operare la pace, a usare la misericordia, a vivere nella mitezza, a creare bellezza.
Cerchiamo ora di interrogarci solo su una delle beatitudini, forse la più incompresa, o mal compresa perché moralizzata, la beatitudine dei puri di cuore. “Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio” (Mt 5,5). Per la Scrittura il puro di cuore è anche colui che ha “mani innocenti” (Sal 24,4). Dunque, è colui che ha cuore e mani pulite. Luogo nativo del volere e del decidere, il cuore è anche all’origine dell’agire simbolizzato dalle mani. Puro di cuore è colui che cerca di unificare cuore e mano, intenzione e azione, coscienza e prassi. Integrità e coerenza personali sono contrassegni del puro di cuore: ha compreso che l’unico potere degno e legittimo è quello su di sé, non sugli altri. Spadroneggiare, possedere, abusare, questo è essere impuri. Se il cuore rinvia al sé, alla coscienza della persona, la purezza di cuore contesta la tirannia dell’“io”. Puro di cuore è chi non sa di esserlo, anzi vede la propria distanza dal Signore e, fissando lo sguardo e la speranza su di Lui che è puro, entra in quell’oblio di sé che è assenza di calcolo, di artificio, di accomodamento, di manipolazione. Arti, queste, ben note a coloro che si installano nei luoghi del potere perché abitati da un cuore prepotente. La purezza di cuore si manifesta così come semplicità, come libertà da cose e legami da cui si fa dipendere la propria vita. Cassiano ironizza sui monaci che dopo aver abbandonato tutto, si legano a “un pennino, un ago, un coltello”: il cuore non era purificato. Amare con purezza implica del resto l’uscita dall’amor proprio. L’amore non esercita né subisce la forza: questa la purezza.
La purezza dell’agire è però anche purezza del parlare. La Bibbia sa bene che la bocca parla dalla pienezza del cuore e che non ciò che entra nell’uomo lo rende impuro ma ciò che ne esce. Se in Sal 24 il puro di cuore è colui che non spergiura e non inganna, nel Sal 15 esso è colui che non insulta, non calunnia, ma dice la verità che ha nel cuore. Purezza di cuore è dunque anche limpidezza della parola e trasparenza della comunicazione. Il menzognero è l’impuro per eccellenza. Colui che con le parole significa altro da ciò che ha nel cuore, al fine di violentare la realtà e di piegare gli altri ai propri fini. È colui che, come dice la Bibbia, ha “un cuore e un cuore” (Sal 12,3), un cuore di cui cela le intenzioni e un cuore svelato da parole che dicono il falso. Sicché, in un colpo solo, avviene un triplice tradimento: degli altri, della parola, di se stessi. Anche qui, l’uomo delle beatitudini appare Gesù, colui il cui parlare è stato “sì, sì, no, no” (Mt 5,37), colui che ha detto la verità senza guardare in faccia a nessuno, colui di cui si è potuto dire: “Mai nessuno ha parlato come parla quest’uomo” (Gv 7,46). Il puro di cuore, che cerca di integrare cuore e azione e dice la verità che ha nel cuore, si trova così nella spiacevole situazione del testimone, del martire. Da lui si fugge perché la verità che pronuncia è umiliante e ferisce l’orgoglio degli orgogliosi e svela le persone per ciò che sono in verità. Il nitore della sua parola rinvia, infatti, l’uomo alla propria deformità, mostrandolo quale è realmente. Così, restituita alla sua dimensione cristologica e alla sua serietà umana ed etica, la beatitudine dei puri di cuore, che sembra così innocua e perfino demodé, ritrova il suo peso, la sua pregnanza e la sua capacità di narrarci il caro prezzo e il carattere scomodo e scandaloso della santità.