Obbedienti perché liberi

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Fratelli, sorelle,

nell’ultimo capitolo della nostra Regola monastica, appena prima della Conclusione, si dice:

Non impegnare la comunità col tuo atteggiamento personale, e non dimenticare che anche in questo il consiglio può chiederti obbedienza quando il tuo impegno è in contrasto con la vita della comunità” (RBo 47).

È interessante che questa affermazione che riguarda la vita comune sia immediatamente preceduta da quest’altra frase: “Non lasciare che si verifichino divisioni nel tuo interno, cerca l’unità della persona”. Si pongono in relazione la divisione interiore e la divisione fra sé e la comunità. Ovviamente il Consiglio può intervenire solamente sulla dimensione visibile di tale divisione, ovvero quando il comportamento del singolo è in palese contrasto con il resto della Comunità e allora il Consiglio può chiedere obbedienza nelle forme che sono previste affinché il comportamento del singolo non diventi un sabotare, un contraddire, un ostacolare e perfino un impedire il cammino comunitario.

Ma il riferimento all’unità della persona è interessante perché pone una stretta relazione tra dimensione intima e interiore, psicologica e spirituale della persona da un lato, e la sua dimensione relazionale, comunicativa e comunitaria, dall’altro. Sviluppando quel che ha scritto il teologo Romano Guardini, ovvero che “‘persona’ significa forma”, possiamo dire che una persona formata è una persona integrata, in cui le diverse parti non convivono in modo caotico e disorganico, giustapposte, ma ben connesse e unificate, o almeno discretamente unificate e decentemente connesse: emotività e razionalità, affetti e sentimenti, corporeità e sessualità, relazionalità e comunicazione con gli altri e capacità di abitare la solitudine e vivere una vita interiore. Persona formata è persona che non trova fuori di sé il movente per vivere, ma ha assodato e interiorizzato le motivazioni che reggono la sua vocazione. Tutto questo lo possiamo riassumere sotto la parola libertà. È il livello di libertà che indica la qualità della persona. Insomma, perché il rapporto tra individuo e comunità, che emerge come gravemente problematico in questo passo della Regola, sia sostenibile, occorre una libertà di fondo della persona.

Ora, se una comunità è composta essenzialmente da persone e da relazioni, una comunità che conta ormai più di mezzo secolo di vita, in cui oltre a giovani che hanno vissuto solo una breve e recente parte di questa storia, vi sono altri che hanno convissuto per decenni e che dunque hanno un’esperienza molto differente della comunità stessa, essa è portatrice di una storia densa di incrostazioni dovute a rapporti difficoltosi, di blocchi relazionali, di ferite che si sono più o meno cicatrizzate con gli anni, ma che fanno sentire ancora nell’oggi il loro peso. E ci sono le storie che sono state mal giocate sul piano affettivo e relazionale che lasciano pesanti strascichi nel presente, che hanno generato dipendenze, mancanze di autonomia e di libertà, così come impacci comunicativi. Si può pertanto verificare ciò che dice la Regola, ovvero che, la presenza di una persona in comunità sia non solo non in linea con il cammino comunitario – che vi siano dissidenze è normale – ma che sia ostacolo a tale cammino, e che l’impegno, ovvero, lo sforzo pensato, meditato, organizzato della persona sia precisamente volto a contrastare la vita di tutti gli altri. Si può dare una volontà contro la comunità mentre si è fisicamente, ma solo fisicamente, dentro la comunità. Questo lo si verifica in molti aspetti del vivere quotidiano: auto-esenzione dai servizi comunitari per dire il proprio “no” all’andamento comunitario, allentamento della tensione lavorativa, rifiuto di salutare e parlare con alcuni fratelli o sorelle, assenze ingiustificate a momenti comunitari, liturgici o assembleari, uscite immotivate dalla comunità non concordate con chi presiede, rifugio in rapporti e comunicazioni con persone esterne alla comunità. Il tutto in un atteggiamento globale della persona che si struttura sempre più su doppiezza e menzogna.

Ora, la Regola afferma che a quel punto il Consiglio può chiedere l’obbedienza al singolo. Sì, perché in una vita comunitaria basta anche una sola persona determinata a perseguire un lavoro di opposizione e ostacolo al resto della comunità per rallentarne e renderne improbo il cammino. Purtroppo, l’obbedienza che viene richiesta è assunta, accettata e praticata solo da persone libere. Persone non libere, si sentiranno minacciate o diminuite o lese da un’obbedienza richiesta dall’insieme della Comunità. E tenteranno di sfuggirvi e di sottrarvisi. Ma l’obbedienza, che il Consiglio può legittimamente richiedere a chi, nel concreto dell’impegno e della vita quotidiana, si manifesta in aperto contrasto con il cammino comunitario, può costituire la grande occasione di liberazione per la persona stessa che si vede liberata, attraverso la via semplice e dura dell’obbedienza monastica, dalla tirannia della volontà propria o dai lacci inestricabili delle dipendenze psicologiche e affettive. Ogni atto di obbedienza cristiano ha in sé la dinamica pasquale di morte e resurrezione: morte all’io per resuscitare al noi. Ed è perciò potenzialmente liberante.

Perciò, fratelli e sorelle, siamo sobri e vigilanti perché il nostro Avversario, il Divisore, come leone ruggente si aggira cercando una preda da divorare. Resistiamogli saldi nella fede, fedeli nell’obbedienza e determinati nel chiedere obbedienza là dove sia necessario. E tu, Signore, abbi tanta pietà di noi.

fratel Luciano