L’apertura del cuore per conoscersi
Fratello, sorella,
nella nostra Regola, a proposito di chi entra in comunità e inizia il cammino di formazione, si dice:
“Quando giungi in comunità col desiderio di seguire l’Evangelo, tu conosci poche cose di questa vita che ti ha attirato e che hai scelto. Ti occorre dunque un tempo di riflessione e di maturazione della vocazione ricevuta” (RBo 9).
In realtà quel tempo di riflessione e maturazione si articola in diversi tempi, il postulandato e il noviziato, e ancora, dopo l’impegno nella liturgia della promessa, il probandato. E noi abbiamo visto nel corso degli anni come questi tempi debbano avere una lunghezza adeguata, anche se si deve assolutamente cercare di far emergere rapidamente le problematiche profonde, che sono sempre relazionali, psicologiche, affettive, e che richiedono un lavoro appropriato affinché una persona possa comprendere in tempi ragionevoli se la vita monastica può essere la sua vita e comunque per arrivare a compiere il proprio gesto di affidamento radicale con i voti in piena coscienza e libertà. Cioè conoscendo le proprie carenze e le proprie negatività, le proprie ferite e i propri precisi limiti.
Forse, a quanto afferma la nostra Regola dovremmo aggiungere che non solo chi entra in comunità conosce poche cose della vita monastica che l’ha attratto, ma probabilmente conosce poco anche di sé. E che il tempo di riflessione e maturazione non può essere isolato e limitato a un momento o fase della formazione iniziale, ma in verità deve diventare un lavoro che accompagna l’intera vita della persona, del monaco, lavoro che comporta quella capacità che gli antichi padri chiamavano apertura del cuore. L’apertura del cuore richiede umiltà e coraggio, il coraggio di volere vedersi in verità e l’umiltà di mostrarsi e dirsi a una persona più matura ed esperta per potersi conoscere attraverso lo specchio che l’altro ci offre. L’esperienza dice che la fatica che l’apertura del cuore comporta è infinitamente inferiore al dolore e al prezzo da pagare quando ci si rifiuta a tale lavoro, ritenendo di non aver bisogno di un accompagnamento, di potercela fare da soli, o comunque provando vergogna di dirsi a un altro. Anche su questo piano noi sperimentiamo la potenzialità terapeutica della parola. La parola che osa dire i propri pensieri (cioè il proprio malessere, i propri desideri disordinati, la propria rabbia, il proprio rancore …) dopo averli riconosciuti e nominati e dopo aver respinto la tentazione di minimizzarli e di trovare giustificazioni per non dirli, può farci compiere un notevole cammino di liberazione.
Liberazione da che cosa? Essenzialmente da tre dimensioni: dall’egocentrismo che ci mantiene nell’infantilismo e nella cecità nei confronti degli altri; dalla deresponsabilizzazione che ci dà solo un’illusione dei libertà, mentre ci toglie la gioia del misurarci realmente con la vita; e infine dalla dipendenza che ci espropria di noi stessi e ci fa vivere all’ombra, rassicurante ma anche mortifera, di un altro. Non era forse questo che diceva Barsanufio quando esortava a tagliare queste tre dimensioni dalla vita di un monaco, cioè “la volontà propria (l’egocentrismo), l’autogiustificazione (la deresponsabilizzazione) e il voler piacere agli uomini (la dipendenza)”? Poi certo, riprendendo la nostra Regola, non si tratta solo di riflessione e di maturazione, ma queste due parole indicano da un lato il cammino, dall’altro l’obiettivo, la meta, dell’intero processo formativo e di crescita umana e spirituale. Cammino che deve conoscere percorsi personalizzati e che si articolerà in dinamiche e movimenti peculiari che si potranno differenziare per ciascuno, ma che non potrà mai prescindere da questi quattro elementi decisivi: il rapporto con chi accompagna spiritualmente, prima e dopo la professione monastica, la vita fraterna quotidiana, il lavoro, la vita in cella.
Perciò, fratelli e sorelle siamo sobri e viglianti, perché il nostro Avversario, come leone ruggente, si aggira cercando una preda da divorare. Resistiamogli saldi nella fede e coraggiosi nell’affrontare il lavoro di conoscenza di noi stessi decisivo per incontrare in verità il Signore e i fratelli. E tu, Signore, abbi pietà di noi.
fratel Luciano