Una luce che irrompe

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6 agosto 2023

Trasfigurazione del Signore
professione monastica di Federico e Paolo
Omelia di fr. Sabino Chialà, priore di Bose

(Dn 7,9-10.13-14 - Mt 17,1-9 – 2Pt 1,16-19)

Mt 17,1-9

In quel tempo 1Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte. 2E fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce. 3Ed ecco, apparvero loro Mosè ed Elia, che conversavano con lui. 4Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Signore, è bello per noi essere qui! Se vuoi, farò qui tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». 5Egli stava ancora parlando, quando una nube luminosa li coprì con la sua ombra. Ed ecco una voce dalla nube che diceva: «Questi è il Figlio mio, l'amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo». 6All'udire ciò, i discepoli caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore. 7Ma Gesù si avvicinò, li toccò e disse: «Alzatevi e non temete». 8Alzando gli occhi non videro nessuno, se non Gesù solo.
9Mentre scendevano dal monte, Gesù ordinò loro: «Non parlate a nessuno di questa visione, prima che il Figlio dell'uomo non sia risorto dai morti».


Cari fratelli e sorelle,
cari amici e ospiti,

abbiamo appena riascoltato l’annuncio che questa festa della Trasfigurazione del Signore ci rivolge. Un annuncio che ha al suo centro la visione di una luce che irrompe nella storia di noi uomini e donne di tutti i tempi. Quali che siano le situazioni che viviamo, i pensieri che si affollano, i sentimenti che ci abitano, i pesi che gravano sul nostro cuore, la liturgia di questa notte ci parla di luce. Ci invita a venire alla luce e a gioire di questa luce, che non procede dai nostri sforzi, ma è puro dono. È luce che scende da Dio e che inonda ogni cosa: dal volto del Messia Gesù, alla creazione intera, che con noi celebra questa festa cosmica. Tutta la creazione è infatti destinataria di questo annuncio di luce.

Una luce che spesso non sappiamo vedere, perché i nostri occhi faticano a restare aperti. Vorrebbero chiudersi, per non vedere l’oscurità che incombe. Perché i nostri giorni sembrano abitati più dalla tenebra che dalla luce. Nei nostri cieli si riflettono i bagliori sinistri di innumerevoli e interminabili guerre, che questa sera vogliamo portare in questa liturgia. La nostra terra è devastata e deturpata dall’uso egoistico che ne facciamo. I nostri mari sono spettatori della nostra indifferenza nei confronti di tanti mendicanti di solidarietà.

Ma proprio in questo nostro mondo, e non astraendoci da esso, questa notte siamo invitati ad aprire gli occhi alla luce deificante che brilla sul volto del Salvatore, e a farcene annunciatori. Una luce che viene a trasfigurare, cioè a farci cogliere l’altro volto delle cose e delle situazioni.

Una luce al cui lume rileggere il nostro futuro, il nostro passato e ciò che oggi siamo chiamati a vivere. Futuro, passato e presente, come le tre letture che abbiamo ascoltato ci invitano a fare.

Nella prima lettura, il giovane Daniele coglie questa luce nel futuro… Futuro possibile per un popolo che vive in esilio a Babilonia. In quell’orizzonte che sembrava chiuso, il cuore di Daniele si apre a quelle che chiama: “Visioni notturne” (Dn 7,2.7.13). Visioni che avvengono di notte, come squarci che si aprono nell’oscurità. Daniele le sa vedere e ne parla: annuncia un futuro abitato da due figure: un “antico di giorni” circonfuso di candore e seduto su un trono infuocato (Dn 7,9-10), seguito da “uno simile a un figlio d’uomo” cui sono dati potere e regno (Dn 7,13-14). Due figure accomunate da un tratto: la loro autorità regale. Ma il capitolo si era aperto con la menzione di un altro re: “Nel primo anno di Baldassar, re di Babilonia…” (Dn 7,1). L’autore sembra voler dire: proprio mentre il popolo è sotto la mano potente del re di Babilonia, Daniele intuisce un’altra regalità. In quella notte, ecco due figure luminose, che annunciano un altro regno e un giudizio che sarà di svelamento, allorché i libri saranno aperti. È la luce che apre i nostri giorni. Quei giorni che ci appaiono senza futuro o cupi, come vicoli ciechi, perché dominati da sistemi, poteri, persone… più grandi e più forti di noi. Il giovane Daniele ci invita a non temere: c’è un’altra regalità, non tirannica e non menzognera, che presto si manifesterà.

Pietro, nella seconda lettura, si volge invece alla ricerca della luce nel passato. Guarda cioè alla storia e dice: “Siamo stati testimoni oculari della sua grandezza. Egli infatti ricevette onore e gloria da Dio Padre, quando giunse a lui questa voce dalla maestosa gloria” (2Pt 1,16-17); e ancora: “Questa voce noi l’abbiamo udita discendere dal cielo mentre eravamo con lui sul santo monte” (2Pt 1,18). Interessante questo brano tutto rivolto al passato! Come se anche lì, nel passato, ci fosse bisogno di trovare una luce chiarificatrice a conferma della solidità del fondamento su cui poggia il presente. Pietro infatti rassicura: “Non perché siamo andati dietro a favole artificiosamente inventate, ma perché siamo stati testimoni oculari…” (2Pt 1,16). È come se dicesse: “Il fondamento è solido! Quella luce noi l’abbiamo vista con i nostri occhi e quella voce l’abbiamo udita con le nostre orecchie! Ne abbiamo fatto esperienza e questa resta!”. Qui non vi è, come in Daniele, un popolo che non riesce a vedere un futuro possibile. C’è piuttosto una comunità credente che s’interroga circa la fondatezza di una vicenda di cui sono espressione. Si chiedono se è ancora credibile. Se è ben fondata o se, invece, ora mostra di essere stata il frutto di un abbaglio. Sono momenti che tutti, prima o poi, conosciamo, personalmente e comunitariamente! Pietro reagisce a quella lettura che tenta di minare e delegittimare il passato, appellandosi a un’esperienza fatta, che è reale, al di là di tutto e di tutti. Ciò che è vero resta; e vero è quel vissuto in cui il Vangelo ha portato il suo frutto.

Ecco dunque una luce sognata, per il futuro, e una luce riconosciuta nella trama del passato. E tra le due, l’Evangelo ci parla della luce contemplata dai tre discepoli, Pietro, Giacomo e Giovanni, “sull’alto monte” (Mt 17,1). Luce che brilla sul volto e sulle vesti di Gesù (Mt 17,2). Luce che si dilata comprendendo nella scena Mosè ed Elia che discorrono con Gesù (Mt 17,3). Luce che incanta Pietro il quale esclama: “Signore, è bello per noi essere qui!” (Mt 17,4). Luce infine che si effonde su tutti, avvolgendoli nella sua ombra (Mt 17,5).

C’è in questa scena un crescendo di luce, che però culmina in una voce: “Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltate lui!” (Mt 17,5). Al culmine della scena, dalla visione si passa all’ascolto: la luce si fa voce. Infatti non appena giunge la voce, la luce si dilegua; alla gioia si sostituite il timore: “I discepoli caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore” (Mt 17,6), e Gesù non è più né luminoso né attorniato da Mosè ed Elia, è solo: “Alzando gli occhi non videro nessuno, se non Gesù solo” (Mt 17,8).

È su questa voce che vorrei soffermarmi questa sera, proseguendo idealmente il cammino abbozzato l’anno scorso. Lì avevamo meditato la parola di Pietro, nella versione di Luca: “Maestro, è bello per noi essere qui” (Lc 9,33). Ora, in questa nuova tappa, pensando in particolare a Federico e Paolo, e a noi tutti fratelli e sorelle, vorrei tornare a riflettere su quella voce, e in particolare sull’imperativo finale: “Ascoltate lui!”.

È bello per noi essere qui… ma questa bellezza, colta in un frangente benedetto e preziosissimo della nostra esistenza, è fragile, dura solo se nutrita di ascolto; e dell’ascolto del Figlio, che a sua volta appare in dialogo, in ascolto, di Mosè ed Elia, cioè delle Scritture.

La voce udita dai tre discepoli alla trasfigurazione riprende quello che le folle avevano udito presso il Giordano, al momento del battesimo di Gesù: “Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento” (Mt 3,17). A quella frase, però, qui troviamo un’aggiunta significativa: “Ascoltate lui!”.

Questo imperativo è un’indicazione preziosa per noi. Ci indica la via per la quale potremo continuare a scrutare le pieghe della storia, del nostro mondo, delle nostre esistenze, alla ricerca della luce. Vedere la luce nel nostro futuro, come Daniele il veggente di Babilonia, non è arte divinatoria. Scorgere la luce nel nostro passato, come Pietro, non è esercizio di rilettura nostalgica ed edulcorata del nostro passato. Né il pensare positivo per il futuro, né i facili colpi di spugna sul passato possono farci accedere alla luce vivificante della trasfigurazione. C’è una sola via per questo: ascoltare lui! Il Cristo, che si fa chiave dei misteri, come dice sant’Efrem, chiave delle nostre vite, chiave di lettura delle nostre esistenze, del nostro futuro, del nostro passato e del nostro presente.

Ascoltare la sua voce e non altre voci! Quel pronome (lui) posto alla fine della frase è un’indicazione preziosa. Ci chiede di ascoltare lui e di non prestare attenzione ad altre voci, che tentano di confonderci e di toglierci la luce. Sia le voci che si levano dentro di noi e tentano di gettarci nella disperazione. Sia le voci che ci assalgono dall’esterno, tanto più persuasive quanto più sono martellanti e ripetitive.

Il primo genere di voci che tenta di impedirci di ascoltare il Signore sono quelle cui facciamo spazio dentro di noi. I pensieri di morte che coltiviamo, i risentimenti di cui non riusciamo a liberarci, soprattutto il rancore che divora dall’interno. Ricordo la definizione efficacissima che ne offre Giovanni Climaco, che definisce il rancore: “Veleno dell’anima, tarlo della mente … chiodo confitto nell’anima”; e conclude con un ossimoro efficacissimo: “Sgradevole sentimento amato per la dolcezza della sua amarezza” (La scala 9,2). Sono quelle voci cui non di rado acconsentiamo e che rischiano di occupare e soffocare il nostro spazio vitale, impedendo l’ascolto dalla voce del Figlio.

E poi ci sono le voci che ci raggiungono dall’esterno. In un’epoca di comunicazioni facili e immediate, le parole si sprecano. Si stendono sulla carta e si lanciano nell’etere con una facilità impressionante; e circolano, e spesso ci catturano come in un vortice che ci fa perdere il senso della realtà. Parole che si dicono e poi si smentiscono. Parole di un momento… che spesso non sono capaci di edificare relazioni, perché non guardano né si figurano un volto. Anche a queste parole non va dato spazio.

“Ascoltate lui!”, ci dice la voce scesa dalla nube. Ascoltate lui e non altre voci: è l’invito che questa sera vorrei consegnare a Federico e Paolo, che stanno per pronunciare il loro “sì” per sempre al Signore. Quel Gesù che li ha chiamati a vivere in questa comunità monastica la loro sequela cristiana.

Ma vorrei ricordare questo invito anche a tutti, fratelli e sorelle, che questa sera, ancora e in modo particolarmente intenso, riformuliamo il desiderio e l’impegno a vivere nell’alleanza con il Signore e tra di noi. Ascoltate lui! Ascoltiamo lui solo! Non facciamoci prendere il cuore da altre voci. Non lasciamoci turbare da parole che non sono sue.

Ascoltiamolo nelle sante Scritture sulle quali ogni giorno meditiamo, nella solitudine e nella preghiera comune. Ascoltiamolo nei fratelli e nelle sorelle con cui abbiamo scelto di vivere la nostra sequela. Ascoltiamolo in ogni donna e uomo che incontriamo. Ascoltiamolo soprattutto nel grido dei poveri e di coloro che chiedono la nostra solidarietà. Ascoltiamolo nel gemito della creazione.

Federico e Paolo se il vostro orecchio resterà attento e desto a questo ascolto, non abbiate paura dei momenti difficili che, quasi certamente, incontrerete. Ascoltate quella voce che, peraltro, per nessuno di noi è nuova. Perché se Federico e Paolo sono qui questa sera, se noi tutti siamo qui questa sera, è perché abbiamo ascoltato la Parola, almeno per un istante. Se siamo qui è perché, con Pietro, possiamo dire: “Io quella luce l’ho vista; io quella voce l’ho udita”, anche se poi sono seguiti tempi di buio e contraddizioni; anche se forse in questo momento siamo abitati da dubbi e viviamo contraddizioni.

Tra poco, cari Federico e Paolo, riceverete anche il nostro abbraccio, con il quale vi accogliamo e vi chiediamo accoglienza. In quell’abbraccio ricordiamo anche tutti i fratelli e le sorelle cui un giorno lo abbiamo dato, e che questa sera non sono qui con noi: tutti, e li ricordiamo in Dio, che solo conosce i cuori.

Quell’abbraccio è un gesto grande e audace; un gesto che promette… Accoglietelo con fiducia e benevolenza: fiducia in chi vi vuole bene; benevolenza con cui dovrete colmare e perdonare la pochezza del nostro essere. Non dimenticate mai che noi esseri umani (e noi monaci in particolare) siamo piccoli e poveri esseri che però osano parole grandi. È bene che sia così, ma è bene anche non dimenticare che è così! Quello che state per promettere è grande e temerario, ma se ogni giorno vi ricorderete che osate farlo sapendovi piccoli e poveri, ne raccoglierete gioia e non disperazione.

Pronunciate allora il vostro “sì”, fidandovi del Signore più che di voi stessi. Fatelo grati al Signore, che resta fedele e rende possibile ciò che lui stesso ha ispirato alle vostre labbra. Siate anche grati – come noi lo siamo insieme a voi – a quanti vi hanno accompagnato nel cammino che vi ha condotti fino a questo punto: ai vostri genitori, che vi hanno aperto l’accesso alla vita (pensiamo in particolare al padre di Paolo, che ci accompagna dal cielo); a chi vi ha sostenuto nel cammino di fede: per Federico, agli amici della “Comunità Kairos” (di cui vedo tra noi qualche rappresentante); per Paolo, alle sorelle della “Tenda del Magnificat” (anch’esse presenti, e ce ne rallegriamo molto).

Siamo grati al Signore per questo dono e per questo momento di festa, e siamo grati a voi, amici e ospiti che avete voluto condividere questa nostra gioia; e prima ancora vogliamo ringraziarvi per l’affetto fedele con cui ci avete accompagnati in questi tempi di prova. Ringrazio di cuore e particolarmente anche i monaci e le monache che ci hanno fatto giungere segni della loro vicinanza o che sono presenti in mezzo a noi (Chevetogne, Pra ‘d Mill, Dumenza, Novalesa, Communauté de Jérusalem; c’è anche una rappresentanza dei fratelli di Cellole, mentre le nostre fraternità di Ostuni, Civitella e Assisi sono qui al completo, compresa m. Maria Pia, nostra abadessa benedettina a Civitella). Grazie di cuore all’arcivescovo di Palermo, +Corrado, fedele amico, che presiede questa eucaristia. Grazie a ciascuno… Vorrei ricordare tutti i vostri nomi. Sappiate che vi portiamo nel cuore, come anche voi ci portate.

Il Signore sia luce ai nostri passi. Ci ispiri parole e gesti di vera pace. Quella pace che il mondo attende e di cui noi, che questa sera celebriamo la trasfigurazione del Signore, vogliamo farci riflesso.