Il ragù del dì di festa
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Pochi ci pensano, ma il cibo, come il linguaggio parlato, serve a comunicare, a conoscere e scambiare le identità perché esprime sì l’identità di una terra e della sua cultura, ma sa assumere prodotti che vengono da altri lidi e altre culture: anche il semplice ragù è tributario di regioni così lontane. Sono da commiserare coloro che vivono nell’inconsapevolezza e nell’ignoranza e che, in nome della conservazione dell’identità e delle proprie radici, chiudono le porte di casa, alzano muri che vorrebbero invalicabili, difendono i loro cibi e si dimenticano come questi siano carichi di debiti verso chi in terre lontane ne ha coltivato le materie prime, le ha fatte crescere e poi raccolte: persino nel “cacciatorino” più nostrano, prodotto locale per eccellenza, le spezie che lo aromatizzano giungono dall’oriente asiatico...
Anche in questo senso l’uti, l’uso, non dimentica mai che esiste al servizio del frui, del piacere! Sì, il vero cuoco – al di là del fatto che cucini per un ristorante di fama, per una sperduta trattoria, per qualche amico o semplicemente in famiglia – è una persona che aderisce alla realtà a tal punto da saper usare con maestria tutti gli elementi naturali, facendo sprigionare il potere dell’acqua, del fuoco, i segreti dell’alchimia culinaria, e tutto questo per procurare piacere. E’ significativo che il verbo latino sàpere indichi non solo “avere conoscenza”, ma anche “essere gustoso” e del resto anche in italiano quest’unica radice accomuna sapere e sapore. Il cuoco allora ha bisogno sì di una conoscenza “tecnica”, ma soprattutto di una conoscenza pratica esercitata da tutti i sensi: quando ha davanti a sé gli alimenti, li guarda, li contempla, li tocca, li odora, li assaggia… e dovrebbe esercitare non solo la vista, il tatto, l’odorato, il gusto, ma anche l’udito: saper riconoscere, per esempio, lo sfrigolio del burro o lo spumeggiare del vino vivace.
Enzo Bianchi, Il pane di ieri, Einaudi