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Comentários às leituras dos domingos e dos dias festivos

Páscoa de Ressurreição

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Domingo 24 Abril 2011
Reflexões sobre as leituras
de
LUCIANO MANICARDI
A fé na ressurreição, que está no centro da fé cristã, não coincide com uma simples confiança na vida, mas acredita na vida que nasce da morte

Domingo 24 Abril 2011

Ano A
Act 10,34.37-43; Sal 117; Col 3,1-4; Jo 20,1-9

O acontecimento da ressurreição de Jesús está presente nas três leituras como narração (evangelho), anúncio (1ª leitura) e  parenesi (2ª leitura). A narração mostra a evolução da fé Pacal, o seu carácter dinâmico que comporta entrar no mistério divino através das evidências de morte compostas pelas ligaduras e pelo sudário que envolviam o corpo e pelo sepulcro (evangelho). O anúncio revela o carácter dinâmico da história da salvação que na resurreição de Jesús encontra um ponto culminante, mas não conclusivo: não fecha a história, antes a orienta de forma renovada. Ora, ao anúncio profético sucede o anúncio e o testemunho apostólico nos tempos da Igreja (1ª leitura). A parenesi mostra o carácter dinâmico da vida do baptizado: com o baptismo o cristão é envolvido na morte e ressurreição de Cristo, pelo que o autor da carta aos Colossenses pode afirmar que ele já ressuscitou com Cristo (cf. Col 3,1). Contudo esta afirmação não coloca o baptizado num ponto de chegada, antes numa procura incessante, num dinamismo espiritual contínuo, sob o signo da graça do dom recebido. A "procura das coisas do céu" por parte do cristão indica que ele é chamado a tornar-se aquilo que já obteve pela graça: a fé no ressuscitado permite ao cristão viver hoje a ressurreição, viver na história como ressuscitado com Cristo (2ª leitura).

O Evangelho apresenta, com as três personagens, um itinerário de fé que é também um itinerário do olhar: de um olhar que tem por objecto a pedra removida do sepulcro, que faz supor que o corpo tenha sido roubado (vv. 1-2), as ligaduras (v. 5), depois as ligaduras e o sudário (20,6-7), até um olhar que não se fixa em nenhum objecto (v. 8), que vê e repousa sobre a fé ou pelo meno sobre um princípio de fé que deverá ser completado com a escuta das Escrituras (v. 9). Um olhar que vê o invisível. A fé cristã confessa e crê na ressurreição vendo sinais de morte. Mas não são estes sinais que nos introduzem na fé na ressurreição, mas sim a inteligência do amor (o “discípulo amado”) e a fé nas Escrituras. Com efeito, no discípulo amado que vê e crê (ou “começou a crer”)”, está a fé que nasce do amor, fides ex charitate. Mas nesta fé está também um "ainda não" que exige plenitude e que diz respeito ao compreender as Escrituras (v. 9).


 

È la fede nella Parola del Signore e nel suo amore che consente di iniziare e continuare a credere la resurrezione in mezzo agli innumerevoli segni di morte che traversano la nostra vita e il nostro mondo. E forse, vivere la fede come fede di essere amati dal Signore, come fede nel suo amore per noi, è alla base della fede nella nostra resurrezione: il suo amore per noi non termina con la nostra morte. Questa fede, che interpreta il vuoto della tomba, può anche soccorrere la nostra vita nel momento del terrore del vuoto di amore e della paura dell’abbandono che ci fa abitare nella morte. Dietro al discepolo amato vi è infatti ogni discepolo di Gesù nella storia chiamato a entrare nella fede del Dio che lomo ama.

L’atto di entrare nel sepolcro da parte di Pietro e poi del discepolo amato (vv. 6.8) ha una valenza simbolica. Noi entriamo, durante la nostra vita, in numerosi luoghi di morte (lutti, separazioni, abbandoni, fine di relazioni e di amicizie, incomunicabilità) e lasciamo anche entrare la morte in noi, divenendo noi un luogo di morte per gli altri (chiusura egoistica, arroganza, abuso, violenza, manipolazione, indifferenza). La fede nella resurrezione, che è al cuore della fede cristiana, non coincide con una semplice fiducia nella vita, ma crede la vita che nasce dalla morte grazie alla forza dell’amore di Cristo. Essa consente di entrare nelle situazioni di morte guardando oltre la morte e vivendo la resurrezione, ovvero amando o cercando di amare come Cristo ha amato e, soprattutto, credendo al suo amore per noi.

LUCIANO MANICARDI

Comunità di Bose
Eucaristia e Parola
Testi per le celebrazioni eucaristiche - Anno A
© 2010 Vita e Pensiero

Sexta feira Santa

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22 Abril 2011
Reflexões sobre as leituras
de
LUCIANO MANICARDI
A Paixão e a morte de Jesús podem ser vistas como mistério de obediência. O servo anunciado por Isaías submete-se à violência daqueles que o conduzem à morte, permanecendo fiel ao seu Senhor (cf Is 50,7);

venerdì 22 aprile 2011

Anno A
Is 52,13-53,12; Sal 30; Eb 4,14-16; 5,7-9; Gv 18,1-19,42

La passione e la morte di Gesù possono essere colte come mistero di obbedienza. Il Servo annunciato da Isaia si sottomette alle violenze di coloro che lo conducono a morte restando fedelmente attaccato al suo Signore (cf. Is 50,7); sigillo di questa forza e di questa obbedienza è il suo silenzio (I lettura). L’evento pasquale, fonte di salvezza universale, è visto come mistero di obbedienza del Figlio al Padre che gli consente di affrontare sofferenze e morte divenendo causa di salvezza per quanti obbediranno a lui. Questa obbedienza è sostenuta dalla preghiera intensa e drammatica del Figlio (II lettura). La passione e morte viene letta da Giovanni come compimento, come obbedienza alle Scritture che contengono la volontà di Dio, come compimento dell’amore per Dio e per gli uomini e della missione ricevuta dal Padre. L’obbedienza di Gesù traspare dalla sua coscienza lucida degli eventi (Gv 18,4; 19,28), dalla sua parola autorevole (18,8.19-23.37; 19,11), dal suo tacere (19,9).

In Gv 18,1-11 non siamo di fronte all’arresto di Gesù, di cui si parla solo a partire dal v. 12, ma al confronto-scontro tra Gesù (con i suoi discepoli), da una parte, e Giuda (con i soldati), dall’altra. La scena avviene in un giardino (18,1; cf. anche 19,41), come il primo scontro tra bene e male avvenne nel giardino dell’in-principio. Entrare nella passione è entrare in una lotta: Gesù vi entra con la forza dell’amore (Gv 13,1) e dell’obbedienza al Padre (19,11).

Recandosi nel giardino che anche Giuda conosceva bene (18,2), Gesù sembra facilitare il compito del traditore: Gesù si sottomette alla libertà di Giuda, ma conserva la sua libertà di amare, di amare anche Giuda, anche il suo nemico. Gesù ama i suoi, tutti i suoi, fino alla fine.

La forza dell’obbedienza di Gesù traspare dalle sue parole che atterriscono i suoi avversari e che echeggiano la rivelazione del nome divino: “Io sono” (18,5.6.8; cf. Es 3,14; Is 43,10). L’intima comunione di Gesù con il Padre e il suo obbedire alla parola del Padre, espresse durante tutto il quarto vangelo, sono il fondamento dell’autorevolezza e della forza che emanano dall’umanità di Gesù, del timore che essa incute e che i suoi avversari non sanno sostenere (18,6).


 

Di fronte a Gesù si svela il realismo cinico del sommo sacerdote Caifa (18,14; cf. 11,49-50), il rifiuto della responsabilità da parte di Pilato che sacrifica la convinzione di innocenza di Gesù alla salvaguardia del proprio potere (18,38; 19,4.12), il ricorso al ricatto nei confronti di Pilato dei capi giudei che vogliono a tutti i costi la condanna di Gesù (19,12), il carattere passivo della folla, della massa, esposta alle manipolazioni e alle strumentalizzazioni di chi ha un potere (politico o religioso) da conservare. Sorge la domanda: chi è veramente soggetto in questa vicenda? Giovanni lascia che la figura di Gesù si stagli con forza e autorevolezza signoriali.

La proclamazione della regalità di Gesù sul cartiglio della croce riveste, nella teologia giovannea, il valore di una profezia: quali che siano le intenzioni con cui è stato scritto, ciò che è scritto (e lo scritto rimane!) afferma la verità teologica: Gesù è veramente re e la croce è il trono regale. La croce parla. E proclama che quel Gesù che proviene da Nazaret è il re dei giudei. Dagli inizi fino alla fine, da Nazaret (“Da Nazaret può mai venire qualcosa di buono?”: Gv 1,46) fino alla croce (e alla dimensione di ignominia che essa comportava) la vicenda di Gesù narra il realizzarsi della volontà di Dio e il manifestarsi della sua gloria in modi e forme che spiazzano la razionalità e la sapienza mondane e religiose. È lo scandalo dell’incarnazione, del Verbo fatto carne. Ed è lo scandalo della croce, del Messia crocifisso.

Contemplare l’Innalzato sulla croce comporta una dimensione ecclesiologica inerente, in particolare, il dono e il compito dell’unità della chiesa. Scrive Agostino, commentando Gv 19,23-24: “Le vesti di Cristo divise in quattro parti rappresentano la chiesa disseminata ai quattro angoli del mondo. La tunica tirata a sorte simboleggia l’unità delle diverse parti grazie al legame della carità”.

LUCIANO MANICARDI

Comunità di Bose
Eucaristia e Parola
Testi per le celebrazioni eucaristiche - Anno A
© 2010 Vita e Pensiero

Quinta feira Santa

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21 Abril 2011
Reflexões sobre as leituras
de
LUCIANO MANICARDI
A impureza é o não-amor, é trair o amor, sair do amor: mas também para quem entra no não-amor, Jesús mantém o seu amor fiel

Quinta feira 21 Abril 2011

Ano A
Ex 12,1-8.11-14; Sal 115; 1Cor 11,23-26; Jo 13,1-15

Memória da libertação Pascal do Egipto, a primeira leitura é também profecia da Páscoa messiânica, da salvação que Cristo resgatará para a Humanidade com o seu sangue; é durante o banquete Pascal que Jesús cumpre o sinal do dom da sua vida antecipando os eventos da Paixão e morte e Paulo, na segunda leitura, recorda a tradição das Palavras e dos gestos eucarísticos que também ele recebeu e que os cristãos celebrarão "até que o Senhor venha"  (1Cor 11,26); o gesto com que Jesús, de acordo com o quarto Evangelho, depõe as suas vestes e se inclina para lavar os pés aos discípulos, é anúncio e prefiguração da deposição da vida que Jesús consomará na cruz.

Todo o trecho do lava-pés é colocado por João sobre o signo do amor de Jesús pelos seus (cf. Gv 13,1) que narra o grande amor de Jesús pela Humanidade. A Eucaristia, de que o lava-pés é realização existencial, é sacramento do agape, do amor e este amor assume a forma concreta de fazer-se servo dos outros. O gesto de Jesús aos seus discípulos tem um valor de magistério para a Igreja: "Na verdade, dei-vos exemplo para que, assim com Eu fiz, vós façais também." (Jo 13,15). Do Cristo-servo passamos à Igreja-serva. A Eucaristia torna a Igreja participante da missão de Cristo, pelo que cada lógica individualista, cada egoísmo e cada espírito de divisão é a negação da fraternidade e da partilha que caracteriza a Eucaristia (cf. 1Cor 11,17 ss.). Referindo-se à narração Paulina da ceia do Senhor em 1Cor 11, escreveu o então Card. Joseph Ratzinger: “Celebra-se a Eucaristia com o único Cristo e portanto com toda a Igreja, ou então não se celebra. Quem na Eucaristia procura apenas o seu grupo, quem, nela e através dela, não se insere em toda a Igreja e não ultrapassa o seu específico ponto de vista, faz exactamente aquilo que foi criticado aos Cristãos de Corinto. Ele senta-se, com as costas para os outros e assim destrói a Eucaristia para si próprio e disturba-a para os outros. Ele faz apenas a sua ceia e despreza a Igreja de Deus (cf. 1Cor 11,21-22)”.


 

Jesús lavando os pés aos seus discípulos, e também a Judas, mostra um acolhimento incondicional para com "todos": não muitos, não qualquer um, mas todos, também os seus inimigos, como Judas Iscariotes que alojava no seu próprio corpo o propósito diabólico de o trair (cf. Jo 13,2). A Eucaristia é o sacramento de acolhimento de Deus no seu encontro co todos os Homens. Por isso as celebações eucarísticas deveriam exprimir essa humanidade que as faz serem sinal eloquente de acolhimento na senda de Jesús que, na sua vida terrena, encontrou todos, fariseus e publicanos, justos e pecadores, sãos e doentes e a todos exprimiu as exigências do reino e narrou as misericórdias de Deus. Entre as palavras de Jesús pronunciadas durante o lava-pés estão algumas com carácter de juízo: “Nem todos estais limpos” (Jo 13,11). A impureza a que se refere não ritual ou moral, mas está no âmbito do amor. A impureza é o não-amor, é trair o amor, sair do amor: mas também para quem entra no não-amor, Jesús mantém o seu amor fiel. Jesús ama até o seu inimigo. As nossas eucaristias se querem ser fiéis à fórmula dada pelo Senhor devem ser escola de amor, em que se aprende a amar até o inimigo, ou melhor, se aprende a não criar inimigos e a mostrar um vulto de mansidão também nos encontros com quem se faz nosso inimigo.

A Eucaristia é o sacramentum unitatis enquanto celebração da nova aliança no sangue de Cristo: a lei desta aliança é o mandamento novo do amor deixado por Jesús depois do lava-pés (cf. Gv 13,34). A forma da celebração, o ritual, não pode estar senão ao serviço desta verdade constitutiva do mistério eucarístico. A Eucaristia seria negada como ceia do Senhor, como sacramento de amor e de unidade se a sua forma se revestisse de uma importância maior do que o seu conteúdo, produzindo contendas e divisões no corpo comunitário.  

 

LUCIANO MANICARDI

Comunidade de Bose
Eucaristia e Parola
Textos para as celebrações eucarísticas - Ano A
© 2010 Vita e Pensiero

Domingo de Ramos e da Paixão do Senhor

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Domingo 17 Abril 2011
Reflexões sobre as leituras
de LUCIANO MANICARDI
A autoridade incomparável de Jesús deve-se ao seu conhecimento e aceitação da vontade divina; por outras palavras deve-se à obediência às Escrituras

Ano A 

Procissão

Mt 21,1-11

A entrada de Jesús em Jerusalém é posta, em Mateus, sob o signo do cumprimento da Palavra profética (cf. Mt 21,4-5). A citação de Zc 9,9 põe Jesús na esteira do Rei "justo, salvado e humilde" (segundo o texto hebraico) de que fala o texto profético. Mas é significativo que o incipit do trecho de Zacarias, que convidava Jerusalém à alegria (“Exulta de alegria, filha de Sião! Solta gritos de júbilo, flha de Jerusalém!"), seja substiuído em Mateus com uma citação de Is. 62,11: “Dizei à filha de Sião: aí vem o teu Rei, ao teu encontro, manso e montado num jumentinho;” (Mt 21,5). Desta forma a entrada de Jesús na cidade santa tranforma-se uma palavra para Sião, um anúncio que a interpela mas a que a cidade não responde com alegria mas sim com perturbação e desconfiança: "...,toda a cidade ficou em alvoroço. "Quem é este?" - perguntavam." (Mt 21,10). Os eventos da vida e da história, lidos à luz das Escrituras, tornam-se Palavra que pede dicernimento ao crente. 

Mateus cita o oráculo de Zacarias mantendo apenas o atributo de mansidão do Rei que entra na cidade santa. A mansidão do "Messias" Jesús (cf. Mt 11,29) consiste na renúncia às prerrogativas reais, ao uso da força e do poder quase ilimitado, para escolher conscientemente a via da humildade, da não-violência, do respeito, do agir pacificamente. Se este Rei é "fraco", é-o graças a uma grande força que presidiu à sua escolha: a escolha de renunciar à força e ao poder.


 

A direcção precisa que Jesús mantém, com resolução, na sua existência e na sua vocação, é expressa no texto evangélico através do absoluto controle dos eventos, enviando os discípulos dois-a-dois, dando-lhes indicações claras e prevendo o que aconteceria (cf. Mt 21,1-3). Mas Jesús prevê eventos banais, que não parecem ter valor histórico ou espiritual. Parece que Jesús quer que as coisas aconteçam assim, que ele monte um burro manso, que depois restituirá ao dono, para narrar e marcar com o ritmo do mular, o caminho de Deus ao encontro do Homem. A reacção de desconhecimento e incompreensão da cidade nos confrontos com este Rei que, só pelo seu agir, rebate as características de um rei da época, é significativa de uma possibilidade permanente para o cristão e para a Igreja: senti-Lo como estranho a si próprio, o Cristo revelado pelos Evangelhos, o Cristo pobre, o Cristo manso, o Cristo que não se impõe. Enfim, o Cristo que escolhe como transporte nã um cavalo, mas um burro. Aquele "Quem é este?" da cidade incrédula, deve impor ao cristão e à Igreja uma outra pergunta: "Quem sou eu?"; "Que imagem do Senhor guia a minha prática cristã?". É à luz da mansidão daquele "Messias", da pobreza daquele Rei, da exclusão daquele que veio, que os cristãos e as Igrejas são chamadas a verificar as suas práticas. O paradoxo tem a função de revelação, mas pode tornar-se obstáculo. 

Mateus sublinha, mais do que os outros evangelistas, a presença de uma multidão numerosa à entrada de Jesús em Jerusalém: “Uma grande multidão...” (v. 8); “E todos...” (vv. 9.11). Grande quantidade de gente que precede e segue Jesús, participação popular, confissão de fé, invocações litúrgicas, gestos de tributo para com Aquele que entra em Jerusalém. Parecem cenas de um evento coroado de sucesso. Mas no meio de todo este alvoroço a presença silenciosa de Jesús. Impõe-se uma questão: a multidão compreende o que está a acontecer? comprende aquilo que é verdadeiramente importante compreender? compreende Jesús e o seu agir paradoxal? A cena posterior da mesma multidão que pede a Pilatos que solte Barrabás, condenando Jesús (cf. Mt 27,20-24), sugere uma resposta negativa à questão. Desde sempre a fé cristã exigiu qualidade (isto é profundidade, interioridade, seriedade, liberdade, coragem , coerência,...), não quantidade. O problema é o terreno bom, não todo o terreno ou cada terreno, porque "onde estiverem dois ou três reunidos em meu nome, Eu estarei no meio deles." (cf. Mt 18,20) e porque "nem todos têm fé." (2Ts 3,2).


 

Celebrazione eucaristica


Is 50,4-7; Sal 21; Fil 2,6-11; Mt 26,14-27,66

L’obbedienza a Dio consente al Servo (I lettura) e a Gesù (vangelo e II lettura) di sostenere la dolorosa sottomissione agli uomini e alla loro violenza. La fede del servo Gesù appare così fedeltà radicale a Dio e solidarietà con gli uomini che riscatta il male con il bene.

Il racconto di Matteo è anzitutto cristologico: Gesù è al centro della narrazione come figura ieratica che domina gli eventi con autorevolezza di Signore. Si preannuncia la theologia gloriae del racconto giovanneo. Il Cristo della passione di Matteo è più simile al Cristo maestoso dei mosaici bizantini che al Gesù kenotico della narrazione di Marco. Egli domina gli eventi: lo mostra l’introduzione all’intero racconto (il “titolo” della passione matteana: cf. Mt 26,1-2). Gesù sa ciò cui va incontro e lo dice: alla luce di questa conoscenza vengono ridimensionati gli sforzi di Giuda e i complotti dei suoi avversari per arrestarlo. In verità, ciò che nella passione si compie è il disegno di Dio manifestato nelle Scritture: la corrispondenza tra particolari anche banali e testi scritturistici diviene per Matteo occasione di mostrare che la passione ha un fondamento metastorico, è il compimento drammatico della storia di Dio con l’umanità. L’autorevolezza incomparabile di Gesù è dovuta alla sua conoscenza e accettazione della volontà divina, in altre parole, alla sua obbedienza alle Scritture (cf. l’annotazione solo matteana di 26,53-54). Sempre attento al compimento delle Scritture, Matteo lo è ancor più nel racconto culminante del vangelo (cf. le inserzioni matteane di 26,15; 27,9-10; 27,43). La signoria che Gesù mostra (in particolare con le con cui interviene per dare il senso degli eventi, per ammonire e correggere: cf. 26,1-2.52-54) si accompagna alla sua obbedienza: egli è il Servo del Signore (cf. 26,28 che riprende Is 53,12), il Giusto (27,19), cioè colui che non persegue la propria volontà, ma compie quella del Padre. Gesù è il Figlio di Dio (27,54), espressione che non indica un’identità di natura, ma una totale comunione di volere e di agire.


 

La dimensione ecclesiale della passione di Matteo traspare da una presentazione dei fatti illuminati dalla fede nel Risorto: questa passione è “un racconto destinato a un’assemblea di credenti” (Xavier Léon-Dufour). La comunità a cui è rivolto il vangelo di Matteo, bisognosa di essere rafforzata nella fede e incoraggiata nelle ostilità, appare, nella sua povertà e piccolezza, destinataria di quel Regno di Dio (cf. 21,43) che è un tema di fondo del primo vangelo. Comunità ormai aperta ai non ebrei, essa vede nell’intervento divino (in sogno) alla moglie di Pilato, una pagana, un’antecedente dell’apertura universalistica che connoterà la comunità cristiana. La passione di Gesù è anche giudizio su Israele, soprattutto sui suoi capi religiosi, i sacerdoti e gli anziani (cf. 27,20): l’espressione in bocca a tutto il popolo e presente solo in Matteo, “il suo sangue (sia) su di noi e sui nostri figli” (cf. 27,25), non è formula di auto-maledizione, ma solo di assunzione di responsabilità giuridica, e nel contesto del racconto, è quanto desiderato da Pilato che si è deresponsabilizzato nei confronti del destino di Gesù (cf. 27,24). L’espressione “sui nostri figli” è un’amplificazione retorica che non può per nulla significare una maledizione che si deve perpetuare nella storia sul popolo d’Israele: Matteo non è tanto interessato a individuare chi sia più colpevole di fronte alla morte di Gesù, ma a mostrare che Gesù è il solo Giusto.

Infine, la morte in croce di Gesù è narrata da Matteo in maniera teologica, non cronachistica: i segni teofanici che la accompagnano (cf. 27,51-53: terremoto, aprirsi dei sepolcri, resurrezione dei santi morti, loro ingresso nella città santa, ecc.) anticipano ciò che avverrà alla fine del mondo. Così Matteo dice che la morte di Gesù costituisce l’evento culminante e decisivo della storia: è già il compimento della storia. Questo testo, solamente matteano, parla della resurrezione di Gesù al momento stesso della sua morte (cf. 27,53), e mostra che la narrazione della passione è rivelazione di un mistero, il mistero della storia di salvezza.

LUCIANO MANICARDI

Comunità di Bose
Eucaristia e Parola
Testi per le celebrazioni eucaristiche - Anno A
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