As festas cristãs

O abraço no martírio e o primado na caridade

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29 junho 2013
de ENZO BIANCHI
Pedro e Paulo, ambos discípulos e apóstolos de Cristo, no entanto muito diferentes: Pedro um pobre pescador, Paulo um brilhante intelectual       
29 giugno 2013

SANTI PIETRO E PAOLO

La solennità dei santi apostoli Pietro e Paolo riunisce in un’unica celebrazione Pietro – il primo discepolo chiamato nelle narrazioni dei sinottici, il primo dei dodici apostoli – e Paolo, che non fu discepolo di Gesù, né fece parte del gruppo dei dodici, ma che la chiesa chiama “l’Apostolo”, l’inviato per eccellenza, nonostante questo titolo, che lui stesso pretende per sé, non gli sia mai riconosciuto negli Atti degli Apostoli. E’ una festa già attestata nel più antico calendario liturgico pervenutoci, la Depositio marthyrum del III secolo, che accomuna due apostoli di Gesù morti a Roma in tempi diversi ma entrambi martiri, vittime delle persecuzioni contro i cristiani: due vite offerte in libagione a causa di Gesù e del Vangelo.

I due apostoli sono così accomunati nella celebrazione liturgica, dopo che le loro vicende terrene li hanno visti anche opporsi l’uno all’altro: una comunione vissuta nella parresia evangelica e , proprio per questo, non sempre facile, anzi, sovente faticosa. Il bassorilievo in calcare conservato ad Aquileia, così come l’iconografia tradizionale che narra l’abbraccio tra i due, vuole esprimere proprio quella comunione a caro prezzo che garantì l’opera di ciascuno dei due come fondamento della chiesa di Roma, il luogo dove ebbe fine la loro corsa, il luogo che li vide entrambi martiri al tempo di Nerone, messi a morte per la stessa motivazione.

Pietro è tra i primi chiamati da Gesù: un pescatore di Betsaida sul lago di Tiberiade, un uomo che certamente non diede molto spazio a una formazione intellettuale e che viveva la propria fede soprattutto grazie al culto sinagogale del sabato e poi, dopo la chiamata di Gesù, attraverso l’insegnamento di quel maestro che parlava come nessun altro prima di lui. Uomo generoso, impulsivo, Pietro seguì Gesù rispondendo di slancio alla chiamata, restando tuttavia uomo incostante, facile preda della paura, capace persino di vigliaccheria, fino al misconoscimento di colui che seguiva come discepolo.


 

Sempre vicino a Gesù, a volte appare come portavoce degli altri discepoli, in mezzo ai quali occupava una posizione preminente: non si potrebbe parlare delle vicende di Gesù senza menzionare Pietro, che per primo osò confessare audacemente la fede in Gesù quale Messia. I discepoli, come molti tra la folla, si chiedevano se Gesù fosse un profeta o addirittura “il” profeta degli ultimi tempi, se fosse il Messia, l’Unto del Signore: fu Pietro che, sollecitato da Gesù, fece una confessione di fede con parole che suonano diverse nei quattro Vangeli ma che attestano tutte la sua priorità nel riconoscere la vera identità di Gesù. Pietro fece questa confessione non come “portavoce” dei dodici, bensì mosso da una forza interiore, da una rivelazione che gli poteva venire solo da Dio. Credere che Gesù è il Messia, il Figlio di Dio, non era possibile solo analizzando e interpretando l’eventuale compimento delle Scritture: è stato Dio stesso, il Padre che è nei cieli a rivelare a Pietro l’identità di Gesù (cf. Mt 16,17). Gesù ha così riconosciuto nel discepolo Simone una “roccia”, Kefa, una pietra sulla cui fede poteva trovare fondamento la comunità la chiesa.

Pietro, chiamato “beato” da Gesù, dichiarato roccia solida capace di confermare nella fede i fratelli, non sarà esente da errori, cadute, infedeltà al suo Signore. Subito dopo la confessione di fede che abbiamo ricordato, manifesterà il suo pensiero troppo mondano riguardo al cammino di passione di Gesù, al punto che questi lo chiamerà “Satana”, e alla fine della vicenda terrena di Gesù, Pietro per ben tre volte dichiarerà di non averlo mai conosciuto: paura e volontà di salvare se stesso lo porteranno a dichiarare con forza di “non conoscere” quel Gesù la cui conoscenza aveva ricevuto addirittura da Dio!

Gesù, che lo aveva assicurato della preghiera affinché non venisse meno la sua fede, dopo la risurrezione lo riconfermerà al suo posto, chiedendogli però per tre volte di attestargli il suo amore: “Simone, figlio di Giovanni, mi ami tu?” (Gv 21,15.16.17). Punto sul vivo da questa domanda di Gesù, Pietro diverrà l’apostolo di Gesù, il pastore delle sue pecore prima a Gerusalemme, poi presso le comunità giudaiche della Palestina, poi ad Antiochia e infine a Roma, dove a sua volta deporrà la vita sull’esempio del suo Signore e Maestro. E a Roma Pietro ritroverà anche Paolo: non sappiamo se nel quotidiano della testimonianza cristiana, ma certamente nel segno grande del martirio.


Paolo, “l’altro”, l’apostolo differente, posto accanto a Pietro nella sua alterità, quasi a garantire fin dai primi passi che la chiesa cristiana è sempre plurale e si nutre di diversità. Giudeo della diaspora, originario di Tarso, capitale della Cilicia, salito a Gerusalemme per diventare scriba e rabbi al seguito di Gamaliele, uno dei più famosi maestri della tradizione rabbinica, Paolo era un fariseo, esperto e zelante della legge di Mosè, che non conobbe né Gesù né i suoi primi discepoli, ma che si distinse nell’opposizione e nella persecuzione verso il nascente movimento cristiano. Paolo si definisce un “aborto” (cf. 1Cor 15,8) rispetto agli altri apostoli che avevano visto il Signore Gesù risorto, ma chiedeva di essere considerato inviato, servo, apostolo di Gesù Cristo al pari loro, perché aveva messo la sua vita a servizio del Vangelo, si era fatto imitatore di Cristo anche nelle sofferenze, si era prodigato in viaggi apostolici in tutto il Mediterraneo orientale, era abitato da una sollecitudine per tutte le chiese di Dio. La sua passione, la sua intelligenza, il suo impegno ad annunciare il Signore Gesù traspaiono da tutte le sue lettere e anche gli Atti degli Apostoli ne danno sincera testimonianza. E’ lui, per sua stessa definizione, “l’apostolo delle genti” come Pietro è “l’apostolo dei circoncisi” (Gal 2,8).

Pietro e Paolo, entrambi discepoli e apostoli di Cristo, eppure così diversi: Pietro un povero pescatore, Paolo un rigoroso intellettuale; Pietro un giudeo palestinese di un oscuro villaggio, Paolo un ebreo della diaspora e cittadino romano; Pietro lento a capire e a operare di conseguenza, Paolo consumato dall’urgenza escatologica… Sono stati apostoli con due stili differenti, hanno servito il Signore con modalità diversissime, hanno vissuto la chiesa in un modo a volte dialettico se non contrapposto, ma entrambi hanno cercato di seguire il Signore e la sua volontà e insieme, proprio grazie alle loro diversità, hanno saputo dare un volto alla missione cristiana e un fondamento alla chiesa di Roma che presiede nella carità. Insieme allora è giusto celebrare la loro memoria, che è memoria di unità nella diversità, di vita consegnata per amore del Signore, di carità vissuta nell’attesa del ritorno di Cristo.

ENZO BIANCHI
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À procura da verdade do próprio ser

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Quaresma 2011
de ENZO BIANCHI
A conversão, não acontece nem se esgota num só momento, mas é um dinamismo que deve ser renovado nos diversos momentos da existência, nas diversas idades  

9 Março 2011

Quarta feira de cinzas

Todos os anos a Quaresma volta. Um tempo cheio, de quarenta dias, para ser vivido da parte de todos os cristãos como um tempo de conversão, de voltar para Deus. Os cristãos vivem lutando contra os ídolos sedutores; é pois sempre favorável um tempo para acolher a graça e a misericórdia do Senhor, contudo, a Igreja - que na sua inteligência conhece a incapacidade da nossa humanidade em viver sem fortes tensões o caminho quotidiano em direcção ao Reino - pede que seja um tempo preciso de destaque do quotidiano, um "outro" tempo, um tempo forte para fazer convergir no esforço de conversão a maior parte das energias que cada um possui. E a Igreja pede que isto seja vivido simultaneamente por todos os cristãos, isto é, que seja um esforço feito por todos em conjunto, em comunhão e em solidariedade. São, portanto, quarenta dias, para voltar para Deus, para repudiar os ídolos sedutores e alienantes, para um maior conhecimento da misericórdia infinita do Senhor. 

 A conversão, não acontece nem se esgota num só momento, mas é um dinamismo que deve ser renovado nos diversos momentos da existência, nas diversas idades, sobretudo quando o passar do tempo pode induzir no cristão uma certa acomodação à mundanidade, um cansaço, uma perda do sentido e do fim da própria vocação que o podem levar a viver a fé de uma forma esquizofrénica. Sim, a quaresma é um tempo de reencontro da própria verdade e autenticidade, antes mesmo de ser um tempo de penitência. Não é um tempo para fazer uma particular obra de caridade ou de mortificação, mas é o tempo para reencontrar a verdade do próprio ser. Jesús afirma que também os hipócritas jejuam, também os hipócritas fazem obras de caridade (cf. Mt 6,1-6.16-18): por isso mesmo é preciso unificar a vida diante de Deus e ordenar o fim e os meios da vida cristã, sem os confundir.


A quaresma pretende reactualizar os quarenta anos de deserto de Israel, guiando o crente ao conhecimento de si, isto é, ao conhecimento daquilo que o Senhor, de quem crê, já conhece: conhecimento que não é feito de introspecção psicológica mas que encontra luz e orientação na Palavra de Deus. Como Cristo que por quarenta dias combateu e venceu, no deserto, o tentador, graças à força da Palavra de Deus (cf. Mt 4,1-11), assim o cristão é chamado a ouvir, a ler e a rezar mais intensa e assiduamente -na solidão como na liturgia- a palavra de Deus contida nas Escrituras. A luta de Cristo no deserto, torna-se assim exemplar e lutando contra os ídolos o cristão deixa de fazer o mal que está habituado a fazer e começa a fazer o bem que não faz! Emerge assim a "diferença cristã", aquilo que constitui o cristão e que o torna eloquente na companhia dos Homens; que o habilita a mostrar o evangelho vivido, feito carne e vida.  

A quarta feira de cinzas assinala o início deste tempo propício da quaresma e é caracterizado, como o nome indica, pela imposição das cinzas sobre a cabeça de cada cristão. Um gesto que, talvez hoje, não seja compreendido mas que, explicado e interiorizado, pode ser mais eficaz que as palavras, na transmissão da verdade. As cinzas são o resultado do fogo que arde, contêm o simbolo da purificação, constituem uma memória da condição do nosso corpo que, depois da morte, se decompõe e se transforma em pó; como uma árvore frondosa que, depois de abatida e queimada, se transforma em cinzas, assim sucede ao nosso corpo quando volta para a terra, contudo, aquelas cinzas têm um destino: a ressurreição. 


Simbolismo rico o das cinzas, conhecido já no Antigo Testamento e na oração dos Hebreus: "cobrir-se" de cinzas é sinal de penitência, de vontade de mudança pela provação, pelo fogo purificador. É certo que é apenas um sinal, mas quer indicar um acontecimento espiritual autêntico vivido no quotidiano do cristão: a conversão e o arrependimento do coração contrito. Mas mesmo esta sua qualidade de sinal, de gesto, pode, se vivido com convicção e com a invocação do Espírito Santo, impregnar o corpo, o coração e o espírito, favorecendo a conversão.  

Em tempos, no rito da imposição das cinzas, recordava-se ao cristão, antes de mais, a sua condição de homem saído da terra e que à terra tornará, segundo a Palavra de Deus dita a Adão pecador (cf. Gn. 3,19). Hoje o rito tem um significado acrescido. A palavra que acompanha o gesto pode também ser o convite feito por João Baptista e por Jesús no início das suas pregações: "Converte-te e acredita no Evangelho"...sim, receber as cinzas significa tomar consciência que o fogo do amor de Deus consome o nosso pecado; acolher as cinzas nas nossas mãos significa perceber que o peso dos nossos pecados, consumidos pela misericórdia de Deus, é ligeiro; acolher as cinzas significa confirmar a nossa fé pascal. Seremos cinzas, mas destinadas à ressurreição. Sim, na nossa Páscoa a nossa carne ressurgirá e a misericórdia de Deus, como fogo, consumirá na morte, os nossos pecados.

Vivendo a quarta feira de cinzas, os cristãos não fazem mais do que reafirmar a sua fé de serem reconciliados com Deus em Cristo; a sua esperança de serem um dia ressuscitados com Cristo para a vida eterna, a sua infinita vocação à caridade. O dia das cinzas é o anúncio da Páscoa de cada um de nós.

Enzo Bianchi
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Entre as novidades sobre temas do tempo quaresmal estão disponíveis:

COSTI BENDALY
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ENZO BIANCHI
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ENZO BIANCHI
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ENZO BIANCHI
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ENZO BIANCHI
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A benção sobre a humanidade

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As festas cristãs
de ENZO BIANCHI
O
Altíssimo fez-se "Baixíssimo", o infinito fez-se finito, o eterno fez-se temporal, o forte fez-se frágil, o imortal fez-se mortal e o Espírito fez-se carne. E isto, no ventre de Maria. 

CD MEDITAZIONI PER NATALE - EPIFANIA

1° gennaio

Circoncisione, Nome di Gesù e Maria madre di Dio

“Quando furono passati gli otto giorni prescritti per la circoncisione, gli fu messo il nome di Gesù, come era stato chiamato dall’angelo prima di essere concepito nel grembo della madre” (Lc 2,21). In questo versetto, che è anche la pericope del Vangelo proclamata in questa festa, sono contenuti i tre fondamenti della solennità che segna anche l’inizio dell’anno civile nelle terre dell’occidente.

Gesù è nato a Betlemme, ma potremmo dire che otto giorni dopo si canta la sua identità e perciò la sua appartenenza: Gesù viene circonciso, con il gesto che lo rende appartenente al popolo dell’alleanza; Gesù riceve il nome, quel nome che simboleggia la sua vocazione personalissima e unica, da Maria e Giuseppe, all’interno di una famiglia precisa nella quale è nato e ora “viene al mondo”; Gesù, nato da Spirito santo e da Maria, ha una madre, eppure Dio solo poteva donarlo agli uomini. Cerchiamo di addentrarci nella contemplazione di questo triplice mistero.

Gesù, come era prescritto dalla legge, viene circonciso per entrare così nella “alleanza santa” stipulata con Abramo (cf. Gen 17,10-11). Nella carne di Gesù quella ferita, quell’ablazione che resterà per sempre, indica il suo essere figlio di Abramo, in alleanza definitiva e perenne con il suo Dio: potremmo dire che quel segno inciso nel corpo di Gesù narra il suo essere ebreo, ed ebreo per sempre. Luca ricorda questo esempio perché è decisivo riguardo all’identità e all’appartenenza di Gesù, perché segno della promessa fatta ai padri e che ora si è compiuta (cf. Lc 1,72-73), anche se è segno che verrà trasceso dalla Nuova Alleanza per la quale appare necessaria la circoncisione non fatta da mano d’uomo (cf. Col 2,11), una circoncisione del cuore già predicata dai profeti (cf. Ger 4,4).


Allora, ricordare la circoncisione di Gesù è importante e decisivo per affermare che essa non è il marchio di un popolo ribelle – come purtroppo a volte hanno letto alcuni padri della chiesa! – bensì che è il segno della partecipazione all’alleanza sancita con Dio da parte dei figli della discendenza di Abramo, ieri e oggi, e quindi è il modo di riaffermare che la promessa di Dio per loro non viene meno: essi restano il popolo di Dio nel quale è il Cristo, Gesù di Nazaret.

Ma la circoncisione è anche la circostanza in cui viene dato il nome al bambino, e così avvenne anche per Gesù: Giuseppe e Maria lo chiamano Yeshoua, forma abbreviata di Yehoshoua, “il Signore salva”. E quel nome – che fa riferimento all’impronunciabile Nome di Dio, IHWH, e all’azione del salvare – è dato da Dio stesso, non dagli uomini. Gesù è un bambino che nasce per decisione, volontà e azione di Dio e, quindi, dare il nome spetta a Dio, un nome che indica chi è Gesù: è invocazione di salvezza – “Signore, salva!” – ma è anche azione di salvezza – “Il Signore salva”. Questo nome, e il suo significato forte che Gesù incarna, abiliterà Gesù stesso a essere chiamato, dalla comunità cristiana credente in lui, “Figlio di Dio e Signore” (cf. Lc 1,32-33).

E’ quello il Nome santo in cui gli uomini saranno salvati, il Nome attraverso il quale saranno operati segni, il Nome grazie al quale il regno di Dio si estenderà e Satana arretrerà. E tutta la storia cristiana narra la forza, la santità e la grazia di questo Nome quando è invocato con tutto il cuore nella gioia o nel pianto, all’inizio della vita o alle soglie della morte: “Gesù, dolce ricordo”, canta un inno antico.


Infine Gesù, nato sotto la legge – dunque circonciso, chiamato con un nome proprio che esprime la vocazione e la missione affidategli da Dio – è nato da donna (cf. Gal 4,4), e quella donna è Maria, la vergine di Nazaret scelta da Dio. E’ per opera dello Spirito santo che Maria è diventata gravida, è per volontà di Dio che ha partorito colui che solo Dio poteva dare all’umanità. L’Altissimo si è fatto il Bassissimo, l’infinito si è fatto finito, l’eterno si è fatto temporale, il forte si è fatto debole, l’immortale si è fatto mortale e lo Spirito si è fatto carne: e questo, nel grembo di Maria. Sì, lo Spirito santo ha assunto la capacità di Maria di essere madre e ha trasformato la sua maternità in maternità divina: il frutto benedetto del grembo di questa donna è Gesù, la benedizione di Dio promessa ad Abramo e ora fatta carne, fatta uomo affinché tutte le genti siano benedette. In Maria, “la terra ha dato il suo frutto, ci ha benedetto Dio, il nostro Dio (Sal 67,7). Quella benedizione più volte ripetuta dai sacerdoti – “il Signore mostri il suo volto” – è finalmente compiuta: c’è ormai il volto di Gesù, appartenente a Israele, figlio di Maria!

All’inizio dell’anno civile, che di fatto è divenuto l’inizio dell’anno con cui scandiamo il succedersi degli eventi della nostra vita, questa festa ci dona un messaggio altamente significativo: la benedizione di Dio sull’umanità – cioè Gesù, nato da Maria simbolo dell’umanità intera – è su di noi ogni giorno. E’ benedizione di nozze tra Dio e l’umanità.

CD MEDITAZIONI PER NATALE - EPIFANIA

Enzo Bianchi
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Uma esperança para todos

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A festa do Natal
de ENZO BIANCHI
Se em Jesus, o criador fez-se criatura, o Eterno fez-se mortal, o omnipotente fez-se impotente, foi para que o homem se pudesse tornar no próprio Filho de Deus

Natale del Signore

L’evento che i cristiani celebrano a Natale non è una “apparizione” di Dio tra gli uomini, ma la nascita di un bambino che soltanto Dio poteva dare all’umanità, un “nato da donna” che però veniva da Dio e di Dio doveva essere racconto e spiegazione. La nascita di colui che è il Signore e Dio non va presa in senso metaforico, ma in tutto il suo senso reale, storico che l’Evangelo mette in evidenza quale “segno”. Infatti, per ben tre volte, nella narrazione della nascita di Gesù, l’evangelista Luca ripete con le stesse parole l’immagine da guardare senza distrazioni: “un bambino avvolto in fasce che giace in una mangiatoia” (Lc 2,7.12.16)! Sì, c’è anche la luce che risplende e avvolge i pastori, c’è la gloria divina che incute timore, c’è il coro degli angeli che canta la pace per gli uomini amati da Dio, ma tutto questo è solo la cornice che mette in risalto il quadro e cerca di svelarci il senso che esso racchiude.

Il segno che i pastori ricevono dall’annuncio degli angeli è di una semplicità estrema, un segno povero, un segno appartenente all’umanità povera: nasce un bambino ma nella povertà di una stalla, nasce un bambino, figlio di una povera coppia di sposi, nasce un bambino cui è stata negata l’ospitalità. Il segno del Natale è tutto qui! Eppure, il bambino è proclamato Messia: Salvatore e Signore è un povero bambino, figlio di poveri, nato nella povertà!

Se i cristiani nella loro fede non mantenessero vivo il legame tra il bambino e il Signore, tra la povertà e la gloria, non capirebbero la verità del Natale. Purtroppo i cristiani sono sempre tentati di nascondere la nuda povertà del bambino e vorrebbero la sua gloria nella potenza e nel successo, ma l’icona autentica del Natale sconfessa questi loro desideri.


Forte di questa comprensione del mistero dell’incarnazione, così cantava la festività del Natale un inno cristiano del IV secolo:

“Mentre la notte fonda
buia e tranquilla
avvolgeva con il suo silenzio valli e colline
il Figlio di Dio nacque da una vergine
e obbediente alla volontà del Padre
iniziò la sua vita di uomo sulla terra”.

L’inizio di una vita di uomo sulla terra: forse è proprio per questa sua estrema semplicità che il messaggio del Natale è così universale. E’ infatti un messaggio semplice, alla portata di tutti, a cominciare dai poveri pastori di Betlemme, eppure è annuncio di un mistero grande, perché quel figlio d’uomo che nasce trascorrerà in modo assai ordinario la maggior parte della sua vita: passerà in mezzo agli altri uomini facendo il bene, compirà il miracolo grande della ritrovata comunione con Dio e con gli altri servendosi di segni e prodigi legati ai bisogni essenziali dell’uomo: il pane e il vino moltiplicati, la salute ridata, la natura nuovamente riconciliata con l’uomo, la fraternità ristabilita, la vita riaffermata come più forte della morte. Per questo l’apostolo Paolo dice che la manifestazione di Cristo nel mondo è finalizzata a “insegnarci a vivere in questo mondo” (cf. Tt 2,11-12).


A Natale i cristiani celebrano questo mistero già avvenuto – la venuta di Dio nella carne di Gesù – come promessa e garanzia di quanto ancora attendono: che Dio sia in tutta l’umanità e che l’umanità sia fatta Dio. Ma se questo è il fondamento della festa, allora la gioia che la abita non può essere soggetta ad alcuna “esclusiva”: è gioia “per tutto il popolo”, per l’intera umanità destinataria dell’amore di Dio. I cristiani non possono impossessarsi del Natale sottraendolo agli altri, non possono imprigionare la speranza che è anelito del cuore di tutti. Se in Gesù il Creatore si è fatto creatura, l’Eterno si è fatto mortale, l’Onnipotente si è fatto impotente, è perché l’uomo potesse diventare il Figlio stesso di Dio. Siamo di fronte a quel “admirabile commercium”, a quel “mirabile scambio” con cui i padri della chiesa dei primi secoli cercavano di spiegare ai loro contemporanei l’evento che aveva non tanto cambiato il corso della storia, ma piuttosto ridato alla storia il suo senso. E’ questa la radiosa speranza che i cristiani dovrebbero ancora oggi annunciare agli uomini e alle donne in mezzo ai quali vivono, così assetati di senso, così desiderosi di speranza, così abitati da un’attesa più grande del loro stesso cuore. Per i cristiani si tratta di andare, di stare in mezzo agli altri con la stessa gioia con cui Dio è venuto in mezzo a noi nel Figlio, l’Emmanuele, il Dio-con-noi che non può e non deve mai diventare il Dio-contro-gli-altri. Allora il Natale – non solo quello cristiano, ma anche quello “di tutti”, anche quel clima contagioso di bontà che vince l’ipocrisia di un melenso buonismo – non finirà bruciato nel consumarsi di poche ore e di molti beni, non si spegnerà con l’ultima luminaria, non conoscerà lo svilimento del “saldo” di fine stagione, ma si dilaterà moltiplicandosi nel vissuto quotidiano: sarà il pegno di una vita più umana, abitata da relazioni autentiche e da rispetto dell’altro, una vita ricca di senso, capace di esprimere in gesti e parole la bellezza e la luce, echi di quella luce che brillò nella notte fonda di Betlemme e che deve brillare anche oggi in ogni luogo avvolto dalle tenebre del dolore e del non-senso. I cristiani sanno per fede che Dio ha voluto compromettersi radicalmente con l’umanità facendosi uomo, sanno che è entrato nella storia per orientarla definitivamente verso un esito di salvezza, sanno che ha assunto la fragilità dell’uomo esposto alle offese del male proprio per vincere il male e la morte. E questa loro “conoscenza” sono chiamati a testimoniarla in un’assunzione quotidiana della povertà, dell’abbassamento per incontrare l’altro, nella consapevolezza che ciò che unisce gli uomini è più grande di ciò che li differenzia e li contrappone.

Sì, se a Natale i cristiani sono nella gioia non è un privilegio a loro riservato, un dono che la condivisione vanificherebbe: al contrario, non è loro consentito di impadronirsene in esclusiva perché non possono sottrarre Cristo all’umanità cui è stato inviato dal Padre: il Natale è invito alla speranza, e questa speranza è offerta a tutti.

Enzo Bianchi
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CD MEDITAZIONI PER NATALE