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Comentários às leituras dos domingos e dos dias festivos

XIV Domingo do Tempo Comum

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3 Julho 2011
Refexões sobre as leituras
de
LUCIANO MANICARDI
Diante da tentação de eliminar da nossa vida tudo o que custa e que implica sofrimento em nome da idolatria do "tudo, rapidamente e sem esforço" é importante sublinhar que não se fazem grandes realizações humanas e espirituais sem esforço, dedicação e sacrifício. 


Zc 9,9-10; Sal 144; Rm 8,9.11-13; Mt 11,25-30

La prima lettura presenta una figura messianica connotata dalla ‘anawah, che è piccolezza e umiltà. Il re di cui parla Zaccaria è un curvato, un obbediente; secondo la versione greca dei LXX è un mite, come Gesù nel testo evangelico. E tanto nel re di Zaccaria quanto nel Messia Gesù, la connotazione di umiltà e mitezza non si esaurisce sul piano morale, ma è elemento rivelativo dell’essere e dell’agire di Dio. Matteo presenta Gesù come figura di rivelazione e di iniziazione alla rivelazione: mentre, con la sua umiltà, rivela l’umiltà di Dio, Gesù si propone anche come fonte di umiltà per i suoi discepoli.

Nel testo evangelico, il versetto 25 inizia affermando che Gesù, “rispondendo” o “prendendo la parola” disse… Gesù reagisce con la preghiera (“Ti benedico, Padre”) a quanto narrato precedentemente: nel capitolo undicesimo emerge la constatazione dello scarso interesse suscitato dalla persona, dalla predicazione e dalle opere di Gesù (cf. Mt 11,1-24). Gesù integra nella preghiera l’insuccesso, mette tutto davanti al Padre e conferma il suo “sì”, il suo “amen”, la sua decisione irrevocabile di adesione a Lui. Il suo “sì” al Padre non è condizionato dal successo della sua missione, ma è un’adesione radicale che anche situazioni sfavorevoli o contraddittorie non intaccano.

La preghiera di Gesù ringrazia il Padre non tanto per l’azione di nascondimento nei confronti di alcuni, quanto per l’azione di rivelazione nei confronti di altri. L’adesione di alcuni, definiti piccoli e semplici, che, credendo alla parola e alle opere compiute da Gesù, hanno colto in lui la rivelazione del Padre, diviene svelamento e giudizio del cuore di altri, la cui sapienza intellettuale e dotta si rivela inconsistente davanti alla semplicità dei piccoli: “Grande è la misericordia di Dio: egli rivela i suoi segreti agli umili” (Sir 3,20 secondo il testo ebraico).


 

Le parole di Gesù nei vv. 28-29 abbozzano un vero e proprio itinerario di sequela del discepolo. Abbiamo anzitutto la chiamata: “Venite a me”; quindi la necessaria rinuncia alla volontà propria per obbedire alla volontà del Signore (“prendete il mio giogo”). Per “volontà propria” non si intende la libera determinazione dell’uomo, ma la sua volontà egocentrica, autoreferenziale, “carnale”. Quindi c’è l’attitudine del discepolo, l’obbedienza del discepolo al suo maestro e Signore (“Imparate da me”) e infine il riposo, la pienezza di vita trovata nel Signore (“troverete riposo per le vostre vite”).

Il “giogo” di Gesù non designa dettami religiosi o comandi da eseguire, ma una relazione, un legame, onorando così l’etimologia della parola (l’indoeuropeo yug, cf. anche il sanscrito yoga) che designa l’azione di “riunire”, “mettere insieme”. Il giogo di Gesù leggero e soave è in continuità con il comando biblico di amare e con l’idea che colui che ama fa con gioia la volontà dell’amato. Anche l’atto di comandare l’amore, assurdo se posto in bocca a un terzo, è pienamente sensato se posto in bocca all’amante. L’amante può dire “Amami!”, l’amante può chiedere amore.

Gesù promette riposo a chi assume il suo giogo (cf. Mt 11,29). Un’esistenza credente che sia perennemente stressata dagli impegni pastorali e si configuri come frenetica attività che non conosce sosta e riposo, dimentica quell’affidamento a Cristo che è fonte di riposo nella fatica e di consolazione nelle contraddizioni. E che plasma il volto del credente non a immagine e somiglianza di manager iperattivi e sempre nervosi, ma del Cristo mite e umile, paziente e benevolo.

Al tempo stesso, un giogo resta un giogo e nulla toglie la fatica di portarlo. Amare è un lavoro impegnativo e la sequela Christi comporta sforzo e fatica. Di fronte alla tentazione diffusa di eliminare dal vivere ciò che è faticoso e comporta sofferenza in nome dell’idolatria del “tutto, subito e senza sforzo”, occorre ribadire che non si danno grandi realizzazioni umane e spirituali senza fatica, dedizione, sacrificio. Né possiamo dimenticare che il giogo dell’obbedienza portato da Gesù durante tutta la sua vita è divenuto, alla fine della sua vita, un portare la croce.

LUCIANO MANICARDI

Comunità di Bose
Eucaristia e Parola
Testi per le celebrazioni eucaristiche - Anno A
© 2010 Vita e Pensiero

Corpo e Sangue de Cristo

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26 Junho 2011
Reflexões sobre as leituras
de
LUCIANO MANICARDI
A Vida de Deus e a vida do Homem encontram-se no amor, no ágape, alimento que, de facto, nutre o Homem e realidade que constitui a vida de Deus: "Deus é amor".

Domingo 26 Junho 2011

Dt 8,2-3.14b-16a; Sal 147; 1Cor 10,16-17; Jo 6,51-58

Deus alimenta o seu povo; Deus dá alimento às suas criaturas. Esta afirmação atravessa as três leituras deste dia. No deserto Deus nutriu o seu povo com o maná (I leitura); Jesús é o pão dado por Deus para a vida do mundo (evangelho); o único pão, que é Cristo, nutre a comunidade cristã e fá-la participar na vida do seu Senhor (II leitura).

O alimento que vem de Deus e que permite ao seu povo continuar como peregrino no deserto, no exigente êxodo em busca da terra prometida (I leitura), é o pão do povo peregrino em busca do Reino, é o pão que tem uma valência escatológica; é o pão que dá a unidade à comunidade constituindo-a como único corpo (II leitura), radicando-a no dom de Deus e no seu amor, e tem por isso uma valência eclesiológica; é o pão vivo que assume o rosto e o corpo de Cristo, que reflete a sua vida e a sua humanidade, a sua carne e o seu sangue (evangelho) e enquanto tal, tem uma dimensão cristológica.

As palavras de Jesús: “Eu sou o pão vivo que desceu do cèu: quem comer deste pão viverá eternamente” (Jo 6,51) não devem ser compreendidas de imediato com um sentido eucarístico e referindo-se ao pão eucarístico. Estas palavras indicam Jesús como aquele que revela o Pai e que pode dar a vida ao mundo com a sua própria vida, com a interpretação da vida humana que Ele mostrou à humanidade na sua existência concreta. O "me comer" (cf. Jo 6,57), o “comer a minha carne e beber o meu sangue” (cf. Jo 6,53.54.56) remetem o discípulo para a operação espiritual de assimilar na própria vida, a vida de Cristo. Desta operação faz parte a fé, o crer, faz parte a escuta da Palavra das Escrituras, faz parte a prática, o fazer em concreto a vontade do Pai.  Não faz parte apenas o "comer" eucarístico.


 

A vida humana de Jesús (a sua carne e o seu sangue), como testemunhado nos Evangelhos, é o alimento de que cada crente é chamado a nutrir-se para que a vida de Jesús viva concretamente nele. A Igreja é o lugar em que a humanidade concreta de cada crente (a sua carne e o seu sangue) é chamada a igualar-se à humanidade de Jesús, à sua vida. Para que seja verdade que uma só vida, uma única vida una o Senhor e o seu discípulo. Ali, a Igreja manifesta-se como lugar de aliança entre o Senhor e o crente.

A vida eterna prometida a quem assimila a sua vida (cf. Jo 6,51.54.58), na realidade inicia-se aqui e agora para o crente. Trata-se de integrar a morte na vida fazendo da vida uma dádiva de si, um acto de amor no rasto de Jesús (cf. Jo 13,34). Como acto de amor é aquele pelo qual Jesús se entrega como alimento e bebida aos Homens. Como acto de amor é a morte de Jesús, amor que está na origem da ressurreição e da promessa de vida para sempre como Senhor no Reino.

Na afirmação de que Jesús é o pão que não provem da terra, mas do Céu e que é destinado a ser comido para dar a vida aos Homens reside o mistério e o escândalo da comunicação: para dar a vida é preciso perdê-la. Mas a vida que perco em mim, vejo-a florir noutro. Para dar aos Homens a vida de Deus, o filho de Deus entra na vida humana, participa da carne e do sangue (cf. Heb 2,14) e convida o homem a mudar, convida-o à relação, à participação, à comunhão. Convida o Homem a comer a sua carne e a beber o seu sangue, isto é, convida-o e torna-o capaz de participar na sua vida.  

A Vida de Deus e a vida do Homem encontram-se no amor, no ágape, alimento que, de facto, nutre o Homem e realidade que constitui a vida de Deus: "Deus é amor". (1Gv 4,8.16). A Eucaristia é o sacramento da caridade, do agape, em que o dom de Deus aos Homens é a narração absoluta do seu amor por eles e a fonte para se amarem como Cristo os amou.  A comunidade que nasce da Eucaristia é constituida pelo conjunto dos "doadores", por aqueles que são "capazes de se d(o)arem" porque eles próprios são "destinatários do dom" num circuito de doação que tem a sua origem no alto, em Deus. A comunidade que nasce da Eucaristia é formada por "aqueles que amam" ("Amai-vos uns aos outros" Jo 13,34) enquanto “amados” (“como Eu vos amei”: Jo 13,34).

LUCIANO MANICARDI

Comunidade de Bose
Eucaristia e Palavra
Textos para as celebrações eucarísticas - Ano A
© 2010 Vita e Pensiero

Santíssima Trindade

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Domingo 19 Junho 2011
Reflexões sobre as leituras
de
LUCIANO MANICARDI
O Deus trinitário é o Deus que não existe sem o Homem. E o Homem, colocando-se em Cristo pela fé e deixando-se guiar pelo Espírito habita o agape, o amor, conhecendo assim a comunhão com Deus.

Es 34,4b-6.8-9; Cant. Dn 3,52-56;
2Cor 13,11-13; Gv 3,16-18

domenica 19 giugno 2011

Le tre letture bibliche orientano l’odierna celebrazione della Triunità divina verso la contemplazione del Dio estroverso, del Dio che si comunica all’uomo, del Dio il cui amore è per il mondo, insomma del Deus pro nobis. Del resto, il dogma trinitario non è altro che “lo sforzo ostinato di andare sino in fondo all’affermazione giovannea per cui ‘Dio è amore’ (1Gv 4,8)” (Rémi Brague).

Dopo il peccato del vitello d’oro, Dio si manifesta una seconda volta ai figli d’Israele scendendo sul Sinai per comunicare loro il suo Nome che lo rivela quale compassionevole e misericordioso, capace di grazia e di perdono. È il Dio condiscendente, che scende per raggiungere l’uomo nel suo peccato (I lettura). Il vangelo presenta il Dio che ama a tal punto il mondo, l’umanità, da donare il suo Figlio per la salvezza del mondo. Il figlio unico è tutta la vita di un padre, è ciò che egli più ama di tutto ciò che ama: il Dio che dona il Figlio è il Dio mosso da amore folle. Vi è un eccesso nell’amare di Dio e questo eccesso è il Figlio Gesù Cristo. La benedizione presente nella seconda lettura vuole stabilire la presenza di Dio nella comunità dei cristiani di Corinto. Questi sono pertanto esortati ad accogliere e a lasciar operare tra di loro la grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio e la comunione dello Spirito santo.

Sempre la presenza di Dio necessita di una mediazione umana per essere colta come presenza di benedizione e di amore. Mosè, innocente del peccato commesso dai figli d’Israele, si mette liberamente nel novero dei peccatori (“perdona la nostra colpa e il nostro peccato”: Es 34,9) per intercedere presso Dio a favore del popolo. Gesù narra con la prassi della sua vita e con la sua auto-donazione l’amore folle di Dio per gli uomini. Paolo, con il suo ministero e la sua paternità apostolica, cerca di fare della comunità di Corinto una dimora del “Dio dell’amore e della pace” (2Cor 13,11).

L’azione del Dio trinitario è perdono (I lettura), amore (vangelo), comunione (II lettura) e può essere esperita grazie alla fede (vangelo).


 

“Così, infatti, Dio amò il mondo, che diede il suo unigenito Figlio” (Gv 3,16). Letteralmente, questo è l’inizio del nostro testo evangelico. Che sottolinea la modalità dell’amore di Dio, modalità che rinvia a quanto detto nei versetti precedenti che parlano della necessità dell’innalzamento del Figlio dell’uomo (cf. Gv 3,14-15) fondandola sulla continuità con il gesto di Mosè che innalzò il serpente nel deserto affinché chiunque lo guardasse, avesse vita. C’è dunque un così, una modalità, una forma dell’amore di Dio che è anzitutto fedeltà. Fedeltà di Dio al popolo con cui si è legato in alleanza, alla storia condotta con il popolo, al suo Nome in cui la misura della misericordia sovrasta di gran lunga la misura del giudizio (cf. Es 34,6-7). Si tratta di fedeltà a colui che è infedele e di amore per colui che non vi corrisponde: la fedeltà e l’amore di Dio diventano la sua responsabilità nei confronti degli uomini peccatori. Solo così l’amore di Dio è davvero per il mondo, per l’umanità tutta, per ogni uomo. E solo così il suo amore, unilaterale e incondizionato, non condanna, ma salva.

Così Dio amò. La forma verbale del verbo amare rinvia a un evento storico preciso: la morte in croce di Gesù (cf. Rm 5,8). L’amore di Dio manifestato sulla croce assume la forma dello scandalo, dell’eccesso che, nella sua unilateralità e smisuratezza, sconvolge i parametri umani di reciprocità, corrispondenza e contraccambio dell’amore. Il dono sovrabbondante insito nell’evento della croce è il perdono di Dio, l’amore che Dio già predispone per colui che pecca e che peccherà.

Così Dio amò. Il Dio che ama è anche il Dio che soffre. Donare il Figlio è mettere a rischio la propria paternità pur di non rinunciare a cercare comunione con gli uomini. Il Dio trinitario è il Dio che non sta senza l’uomo. E l’uomo, situandosi per fede in Cristo e lasciandosi guidare dallo Spirito abita l’agape, l’amore, e così conosce la comunione con Dio. Con il Dio che è amore. L’agape, infatti, è il cuore della vita trinitaria.

LUCIANO MANICARDI

Comunità di Bose
Eucaristia e Parola
Testi per le celebrazioni eucaristiche - Anno A
© 2010 Vita e Pensiero

 

Pentecostes

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Domingo 12 Junho 2011
Reflessões sobre as leituras
de
LUCIANO MANICARDI
Antes de ser capacidade de perdão no encontro com o outro, o Espírito ensina ao crente a reconhecer o mal que habita nele e a vencê-lo com o bem e com o amor. De resto, como pode fazer a paz fora de si, quem não a promoveu dentro de si?  

At 2,1-11; Sal 103; 1Cor 12,3b-7.12-13; Gv 20,19-23

Il dono dello Spirito celebrato a Pentecoste è intravisto dai testi biblici odierni come linguaggio della comunità cristiana che riesce a comunicare ad extra le opere di Dio (I lettura), come principio ordinatore che regola i doni e i ministeri all’interno della comunità secondo il principio dell’“utilità comune” (1Cor 12,7; II lettura), come forza escatologica che stabilisce la pace nella comunità e consente ai discepoli di rimettere i peccati (vangelo).

Lo Spirito crea relazione e innesta in Cristo le relazioni intra-ecclesiali, inter-ecclesiali e missionarie. Esso guida ciascuno e tutti nella comunità ad assumere i modi e i pensieri di Cristo in vista dell’edificazione dell’unico corpo: la chiesa.

Il vangelo stabilisce un nesso tra Spirito santo e remissione dei peccati. Il Risorto mostra ai discepoli le ferite delle mani e del costato e dona la pace e lo Spirito santo. Perdonare è donare attraverso le ferite ricevute, è fare del male subìto l’occasione di un gesto di amore, è creare pace con una sovrabbondanza di amore che vince l’odio e la violenza sofferti. Il Risorto ha vinto in se stesso, nella sua persona, con l’amore, il male patito e, manifestando ai discepoli la continuità del suo amore nei loro confronti, comunica loro anche la via per partecipare alla sua vita di Risorto: vincere il male con il bene, rispondere alla cattiveria con la dolcezza, far prevalere la grazia sulla vendetta e sulla rivalsa. Prima di essere capacità di perdono nei confronti di altri, lo Spirito insegna al credente a riconoscere il male che abita in lui e a vincerlo con il bene e l’amore. Del resto, come potrebbe stabilire la pace fuori di sé chi non ha stabilito la pace in se stesso? Come potrebbe amare il nemico esterno chi non ha cominciato a far prevalere l’amore sui nemici interiori e sull’odio di sé?


 

Frutto dello Spirito, il perdono è evento escatologico prima che etico. Tuttavia, il dinamismo umano del perdono è lungo e faticoso. Per perdonare occorre rinunciare alla volontà di vendicarsi; riconoscere che si soffre per il male subìto e che tale male ci ha privati realmente di qualcosa; condividere con qualcuno il racconto del male subìto; dare il nome a ciò che si è perso per poterne fare il lutto; dare alla collera il diritto di esprimersi; perdonare a se stessi (soprattutto il male subìto da persone amate o vicine suscita pesanti sensi di colpa che rischiano di imprigionare per tutta la vita); comprendere l’offensore, cioè guardarlo come un fratello che il male ha allontanato da me; trovare un senso al male ricevuto; sapersi perdonati da Dio in Cristo. Questo cammino il credente lo vive aprendosi alle energie dello Spirito che fanno regnare Cristo in lui e nei suoi rapporti.
Lo Spirito è dono e promessa: le due cose a un tempo. Come dono esso è verificabile nella vita del credente e della chiesa nei frutti di carità, pace, benevolenza, pazienza, mitezza; come promessa esso apre il futuro, suscita la speranza, dà una direzione di cammino. Nel nostro testo, lo Spirito è dono e impegno: dono del Risorto che impegna nella missione i discepoli. Missione che, avendo al suo cuore la remissione dei peccati, è essenzialmente far sperare, dare una forma vivibile al tempo degli uomini, dischiudere orizzonti di senso narrando il perdono di Dio.

Lo Spirito, in quanto dono di Dio, dona al credente e alla chiesa la forma Christi. Come il Risorto dona lo Spirito attraverso il suo corpo, corpo ferito e risorto, così lo Spirito, accolto dai discepoli, vivifica il loro corpo psicofisico (paralizzato dalla paura) e il corpo ecclesiale che essi formano (immobilizzato nella chiusura). Il Figlio, inviato dal Padre, ha donato agli uomini il volto e l’umanità di Dio, e ora dona loro il respiro, il soffio di Dio grazie a cui essi potranno donare al mondo, con i loro corpi, le loro vite e le relazioni che vivranno, la narrazione del volto di Cristo. Narrazione che nel donare il perdono trova il suo momento più alto. Non a giudicare o a condannare è chiamata la chiesa ma a narrare la grande opera del Dio che ha risuscitato Gesù dai morti: la remissione dei peccati, il perdono.

LUCIANO MANICARDI

Comunità di Bose
Eucaristia e Parola
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