Una doppia obbedienza
10 aprile 2025
Dal Vangelo secondo Marco Mc 12,13-27
In quel tempo13mandarono da Gesù alcuni farisei ed erodiani, per coglierlo in fallo nel discorso. 14Vennero e gli dissero: «Maestro, sappiamo che sei veritiero e non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno, ma insegni la via di Dio secondo verità. È lecito o no pagare il tributo a Cesare? Lo dobbiamo dare, o no?». 15Ma egli, conoscendo la loro ipocrisia, disse loro: «Perché volete mettermi alla prova? Portatemi un denaro: voglio vederlo». 16Ed essi glielo portarono. Allora disse loro: «Questa immagine e l'iscrizione, di chi sono?». Gli risposero: «Di Cesare». 17Gesù disse loro: «Quello che è di Cesare rendetelo a Cesare, e quello che è di Dio, a Dio». E rimasero ammirati di lui. 18Vennero da lui alcuni sadducei - i quali dicono che non c'è risurrezione - e lo interrogavano dicendo: 19«Maestro, Mosè ci ha lasciato scritto che, se muore il fratello di qualcunoe lascia la moglie senza figli, suo fratello prenda la moglie e dia una discendenza al proprio fratello. 20C'erano sette fratelli: il primo prese moglie, morì e non lasciò discendenza. 21Allora la prese il secondo e morì senza lasciare discendenza; e il terzo ugualmente, 22e nessuno dei sette lasciò discendenza. Alla fine, dopo tutti, morì anche la donna. 23Alla risurrezione, quando risorgeranno, di quale di loro sarà moglie? Poiché tutti e sette l'hanno avuta in moglie». 24Rispose loro Gesù: «Non è forse per questo che siete in errore, perché non conoscete le Scritture né la potenza di Dio? 25Quando risorgeranno dai morti, infatti, non prenderanno né moglie né marito, ma saranno come angeli nei cieli. 26Riguardo al fatto che i morti risorgono, non avete letto nel libro di Mosè, nel racconto del roveto, come Dio gli parlò dicendo: Io sono il Dio di Abramo, il Dio di Isacco e il Dio di Giacobbe? 27Non è Dio dei morti, ma dei viventi! Voi siete in grave errore».
“Conoscendo l’ipocrisia di farisei ed erodiani, Gesù disse loro: ‘Perché volete mettermi alla prova?’, ‘Perché mi tentate?’” (v. 15). Questa domanda pronunciata da Gesù sul finire della sua predicazione e alla vigilia della sua passione ci rinvia all’inizio del suo ministero, quando “nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana” (Mc 1,12). Nel deserto come nella città santa Gesù è tentato; all’inizio e alla fine del suo ministero Gesù è tentato: la tentazione sembra non averlo mai abbandonato.
L’atteggiamento di Gesù là nel deserto e ora qui a Gerusalemme, però, pare diverso: se nel deserto era lo Spirito a condurlo e a sostenerlo, e per questo Gesù è docile alla sua azione, ora a Gerusalemme è l’uomo ipocrita che vuole sviarlo, che vuole condurlo là dove lui non vuole. E per questo, a chi in Gerusalemme gli si avvicina con cuore ipocrita, Gesù pone una domanda che non aveva posto nemmeno al divisore, al tentatore nel deserto: “Perché?”, “Perché questa inutile e beffarda tentazione dell’ipocrisia, forse la più dura, fra tutte, da portare?”.
Avendo con l’inizio di questa Quaresima accettato di entrare con Gesù nel deserto della tentazione, ora, quasi al termine del nostro cammino penitenziale, nemmeno a noi come discepoli di Gesù è risparmiata, come per Gesù, un’ulteriore tentazione: “perché?”, “Perché sono messo alla prova dall’ipocrisia che sta fuori di me, ma che soprattutto e più in profondità sta dentro di me?”.
Come rispondere allora a questa prova? Nei due episodi letti, Gesù ci è modello di risposta. Gesù ci richiama, con le sue parole e il suo esempio, a una doppia obbedienza: obbedienza alla realtà della vita e obbedienza al Dio vivente che è la realtà della vita. Obbedendo all’una obbediamo anche all’altro, e dunque questa obbedienza è, in fondo, una sola.
Nel primo episodio narrato da Marco, relativo al tributo da pagare a Cesare, vediamo Gesù che si china sulla realtà, su un frammento di realtà, una moneta, per mostrare che è necessario ritornare a guardare ad essa per quello che è, e così discernere il nostro atteggiamento di responsabilità verso la realtà. “Voglio vedere” – dice Gesù – “l’immagine e l’iscrizione” (vv. 15.16) e, guardando da vicino, vi vede un uomo. “Date dunque all’uomo ciò che gli è proprio”, prosegue: di fronte al volto e al nome dell’uomo, l’uomo è chiamato a rispondere con tutta la sua responsabilità alla domanda che quel volto e quell’uomo sono.
Ma nel volto dell’uomo c’è l’impronta, l’immagine di Dio, come dice il salmo 4: “La luce del tuo volto ha lasciato su di noi la tua impronta” (Sal 4,7 LXX). L’uomo vivente e la vita sono dunque ciò da cui non dobbiamo allontanarci, sono la nostra fondamentale obbedienza. Senza questa adesione alla vita non conosciamo nemmeno il Dio della vita, siamo in grave errore e non conosciamo né le Scritture né la potenza di Dio (cf. v. 24), come ci ricorda il secondo episodio del brano evangelico letto, relativo alla vita dopo la morte.
Così, aderendo alla vita e a colui che è la Vita, dalla vita avremo forse anche la risposta al perché della tentazione: un’occasione, una nuova occasione per tornare ad aderire maggiormente al Dio della vita.
fratel Matteo